Dollari e dolori

Di Brad Tank, Chief Investment Officer — Fixed Income di Neuberger Berman 

Negli ultimi giorni del 2016, il trade-weighted U.S. dollar index aveva chiuso poco sotto quota 130. Da allora ha costantemente perso terreno. Da un punto di vista tattico, riteniamo che il mercato abbia reagito frettolosamente e che ci siano margini di rialzo nel breve termine. Tuttavia, potrebbe passare un bel po’ di tempo prima di rivedere quel picco di fine 2016. Ora il dollaro è assediato dai ribassisti.

Ciclo dei tassi: non normale, ma “volto alla normalizzazione”

Una simile affermazione potrebbe sembrare incoerente, pochi giorni dopo la conferenza stampa della Federal Reserve in cui la banca centrale ha espresso un orientamento piuttosto restrittivo e quando i tassi statunitensi a breve termine sono già superiori a quelli europei e giapponesi.

Il presidente della Fed Janet Yellen ha annunciato l’atteso rialzo dei tassi (un “dot plot” che ne sottintende un altro per il 2017) e fornito alcune nuove indicazioni sul piano per ridurre il bilancio entro l’anno. Una settimana prima, il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi aveva dichiarato che i tassi a breve dell’euro non sarebbero ulteriormente scesi, mantenendo però, a parte questo, dei toni accomodanti. In questo caso non è stata fatta alcuna allusione ad una normalizzazione della politica monetaria.

Inoltre, l’annuncio della Yellen è venuto subito dopo la diffusione dei dati sull’inflazione di maggio, inaspettatamente fiacca, che ha ricacciato l’IPC a/a sotto al 2%. Il dollaro è sceso e la curva dei rendimenti dei Treasury si è appiattita drasticamente. Il presidente della Fed ci ha assicurato che ciò non le avrebbe fatto cambiare rotta e questo è stato forse il messaggio principale.

L’unica cifra attuale a sostegno di una stretta monetaria in un ciclo dei tassi normale è il tasso di disoccupazione, che viaggia sul 4,3%. Questo, però, non è un ciclo normale, ma “volto alla normalizzazione”. Sembra che l’intenzione sia quella di sfruttare la spinta favorevole generata dal buon andamento dei mercati finanziari come sostegno per ritornare, a lungo andare, a un tasso a breve del 3% circa, quasi a prescindere dai fondamentali.

Sono finiti i compratori marginali di lungo termine

Il mercato, però, non può ignorare i fondamentali. I differenziali dei tassi a breve sono importanti, ma dopo sei anni di mercato rialzista tali aspettative sono probabilmente già scontate nel tasso di cambio con il dollaro. E di compratori marginali ne sono rimasti pochi. Ciò concentra l’attenzione sull’inflazione e sui differenziali di crescita, che non sono favorevoli al dollaro.

A livello mondiale l’inflazione è rimasta modesta, ma mentre negli Stati Uniti le aspettative di crescita sono state riviste al ribasso, in Europa sono state riviste al rialzo. Ciò rispecchia in parte la maggiore fiducia delle imprese, sostenuta da un’attenuazione del rischio politico, derivante sia dagli eventi della primavera sia, più di recente, dal rientro del pericolo di elezioni anticipate e dai deludenti risultati del M5S alle amministrative in Italia. Ma occorre anche dire che l’Europa si trova più indietro nel percorso verso la ripresa, tanto per cominciare perché è rimasta in difficoltà più a fondo e più a lungo. Il rapido salvataggio della spagnola Banco Popular, questo mese, evidenzia la robustezza della ripresa in corso. Viceversa, nonostante ci aspettiamo un miglioramento della performance per gli Stati Uniti nei prossimi sei mesi, il nostro motore della crescita—vale a dire il consumatore—è stanco, come ha evidenziato il rapporto sulle vendite al dettaglio diffuso il giorno della riunione della Fed.

I primi segni di cedimento del “Trump Trade” suggeriscono di seguire i flussi

I mercati lo hanno evidenziato da tempo: se riteniamo che il cosiddetto “Trump trade” implichi una forza delle azioni statunitensi rispetto alle azioni non statunitensi, una relativa forza nei titoli del settore finanziario e delle small-cap e un dollaro forte… tutto questo è ormai inesistente da mesi. I titoli del settore finanziario stanno registrando risultati negativi, le grandi società statunitensi con elevati utili esteri stanno battendo le aziende domestiche, l’attenzione è monopolizzata dall’Europa e dai mercati emergenti e il dollaro ha perso terreno. Poiché i flussi inseguono le performance di quegli asset non denominati in dollari, tale tendenza potrebbe prendere sempre più slancio.

Ma non si tratta mai di andamenti lineari. A nostro avviso, il “Trump trade” è talmente finito che un qualunque debole segnale di progresso legislativo potrebbe spingere il dollaro in alto. Il mercato si attende che la Fed proceda con cautela, prendendosi delle pause tra un rialzo e l’altro, durante le quali risistema i bilanci. Pertanto, qualunque mossa più aggressiva potrebbe produrre un contributo positivo. D’altro canto, con una curva dei rendimenti già piattissima, potrebbe con altrettanta facilità minare la fiducia e intensificare i segnali di relativa debolezza lanciati dai fondamentali, che attualmente pongono in essere un rischio di ribasso.

Quindi un rimbalzo tattico è possibile. Gli investitori potrebbero avere la possibilità di vendere dollari a tassi migliori di quelli odierni, ma un ritorno sostenuto del biglietto verde pare molto improbabile con l’avvicinarsi del 2018.

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