È il momento di ridurre l’esposizione ai mercati azionari?

A cura di David Fishwick, M&G Investments
Come abbiamo detto ripetutamente su questo blog, dal momento cruciale a metà 2016 c’è stato un cambio di umore strabiliante sul mercato.
Il pessimismo estremo è stato scansato dai forti guadagni azionari, mentre la “stagnazione strutturale” ha ceduto il passo alla “ripresa globale sincronizzata” nella descrizione dell’ambiente vigente. Le notizie sull’entità e la durevolezza dei profitti positivi hanno avuto un ruolo di primo piano:

E lo stesso si può dire dell’ambiente macro estremamente solido:

Tutto questo ha portato con sé profonde riflessioni introspettive (e anche un certo revisionismo e bias del senno di poi). Chi si aspettava una recessione globale nella maggior parte dei casi ha lasciato sul tavolo ingenti guadagni, come pure chi aveva optato per la protezione del capitale a spese della remunerazione.
Situazioni di questo tipo possono rivelarsi emotivamente pesanti, sollevando domande molto difficili: il pessimismo era giustificato, ma avete agito troppo presto? Avevate ragione, ma i fatti sono cambiati? Avete sbagliato tutto? In realtà, può essere molto più difficoltoso, dal punto di vista emotivo, impiegare il capitale dopo un rimbalzo al quale non abbiamo partecipato, che non dopo un crollo scampato.
Questa tensione ha trovato indubbiamente eco nel clima di mercato generale. Di fronte a dati macroeconomici e di utile così sorprendentemente vigorosi rispetto al previsto, la reazione naturale è stata di scetticismo. Serve una dose notevole di energia emotiva per costruirsi delle convinzioni e poi cambiarle. In un post dell’anno scorso Tony ha parlato di come il comportamento dei mercati azionari fosse sembrato quasi una riluttante accettazione dei fatti.
È cambiato qualcosa?
Questa descrizione dell’umore del mercato può lasciare perplessi, nella misura in cui contrasta con i movimenti di prezzo recenti e il quadro dell’atteggiamento degli investitori dipinto da molti osservatori di mercato. Dopo un periodo di guadagni così robusti in ambito azionario, è naturale chiedersi piuttosto se il passaggio dal pessimismo all’euforia si sia pienamente compiuto.
Dunque gli investitori, da scettici che erano, si sono convertiti e ora ci credono davvero? E se le cose stanno così, è arrivato il momento di ridurre l’esposizione ai mercati azionari?
Personalmente direi di no. Gli shock e i drawdown fanno sempre parte del panorama, ma per fare una valutazione ribassista su periodi di tempo più lunghi, dovremmo vedere alcuni fattori critici, molti dei quali oggi non sono presenti.
Valutazione, assoluta e relativa
Si è parlato molto di segnali di valutazioni elevate nel mercato statunitense, ma su scala mondiale, i livelli non sono così allarmanti come suggeriscono i commenti incentrati sugli USA. C’è stato effettivamente un rialzo delle quotazioni a partire dal 2016, ma l’entità è relativamente modesta, considerando la forte crescita degli utili.
Il grafico 3 di seguito mostra il movimento limitato del rapporto prezzo/utili mondiale dal 2015, mentre appare chiaro il contrasto con i livelli di valutazione raggiunti nel 1999:

Ma il dato ancora più importante è che i segnali di valore sono sempre legati al regime di fondo, di cui oggi più che mai è fondamentale tenere conto.
Nel 1999 i motivi per sottopesare l’azionario negli Stati Uniti erano i più convincenti che ho osservato in tutta la mia carriera. Non solo le valutazioni erano elevate in termini assoluti (come lo sono adesso negli Stati Uniti a detta di molti), ma gli investitori erano disposti a ricevere la stessa remunerazione offerta dai Treasury per l’assunzione di rischio azionario:
i Fed fund rendevano circa il 5% e i tassi reali dei Treasury decennali erano pari al rendimento degli utili sull’indice S&P 500.

Oggi la situazione è molto diversa. Persino negli Stati Uniti, le azioni offrono un rendimento nettamente superiore a quello dei Treasury decennali, e questo conta molto, dato che il tasso d’interesse vigente è il fattore chiave da considerare ai fini del valore. Mentre molti commentatori puntano il dito contro le banche centrali per il loro ruolo nella distorsione del mercato, è anche vero che i tassi d’interesse più bassi in termini reali riflettono una concreta situazione di fondo. Alla fine degli anni Novanta, il mondo stava appena iniziando a raggiungere i livelli di inflazione bassi e stabili ai quali molti di noi in seguito si sarebbero abituati (il fatto che i mercati obbligazionari si siano adeguati lentamente a questa nuova realtà spiega il motivo per cui i rendimenti disponibili all’epoca si sarebbero rivelati un regalo):

L’importanza dei tassi d’interesse reali per le valutazioni azionarie è dibattuta. Rappresenta la base degli approcci “a mattoncini” nell’analisi del livello valutativo (come elemento del tasso di sconto), ma secondo altri è ampiamente sovrastimata.
La mia personale convinzione è che non si dovrebbe ignorare l’importanza della valutazione azionaria in rapporto al rendimento reale delle obbligazioni. Sono asset concorrenti, come ammettono in molti quando sostengono che un incremento significativo dei tassi d’interesse può fare pressione sui mercati azionari, e anzi sembra molto probabile che con un ritorno ai livelli di tassi reali e inflazione degli anni Settanta e Ottanta, in assenza di crescita corrispondente, quella pressione sarebbe anche notevole.
Ma prevedere dinamiche di questo tipo attualmente sarebbe piuttosto audace e del tutto inconcepibile per la maggior parte degli investitori. Negli ultimi vent’anni l’enorme stimolo monetario e tre periodi di un anno in cui il prezzo del petrolio è raddoppiato non hanno fatto molto per alterare il grafico in alto. Potrebbero riuscirci il protezionismo e le varie forme di neo-nazionalismo, ma oggi sembra azzardato basare una previsione su questa ipotesi. Senza un profondo cambio di regime, eventuali drawdown massicci sui mercati azionari, per quanto emotivamente difficili da gestire, offriranno opportunità di acquisto con prospettive di guadagno migliori, più che mettere in discussione l’aspettativa che nel lungo termine le performance azionarie saranno superiori a quelle dei titoli governativi e della liquidità.
Sentiment
Quello che manca in quest’analisi è il ruolo fondamentale svolto dall’emotività umana.
In genere si cerca di rilevare qualche segnale di eccitazione fra gli investitori come indicatore di bolle di tipo contrarian, dato che l’eccesso di ottimismo determina un’estrema vulnerabilità alle sorprese negative. Tali indicatori risultano effettivamente elevati, ma sono volatili. Altri, ad esempio in un recente articolo di Robert Shiller, suggeriscono invece di cercare punti di inflessione quando il linguaggio che utilizziamo rivela il timore che qualcun altro stia per vendere le posizioni.
Comunque, in fin dei conti, il valore degli approcci quantitativi che cercano di misurare il sentiment degli investitori come indicatore di performance è discutibile (si veda ad esempio qui e qui): la conclusione più chiara è che il sentiment sembra riflettere ciò che gli investitori hanno appena vissuto. Come sempre, non esiste un modello semplice dietro al quale nasconderci per evitare di farci un’opinione autonomamente.
La sensazione che ho ricavato dagli incontri con clienti e investitori è che c’è stato un cambiamento notevole, come dicevamo prima. In particolare, negli Stati Uniti sta crescendo la propensione ad assumere rischi, ma ciò non toglie che quasi tutti siano ancora scettici sul prosieguo di quanto abbiamo appena visto: molti commenti oggi dicono in sostanza che “il resto del mercato è ancora troppo rialzista” mentre l’avversione alla volatilità continua a dominare il clima in Europa. Nulla a che vedere con la mentalità di fine anni Novanta, quando “non potevi permetterti di non investire”, ma per certi versi assistiamo a quello che Aled Smith ha definito l’effetto BBQ.
Ma la cosa più importante è valutare le proprie sensazioni. Molti di noi sono incerti sulla natura del rally in corso. Emotivamente è molto più difficile scrivere un post come questo che non dipingere un quadro pessimista (soprattutto quando la possibilità di un momentaneo drawdown a doppia cifra sui mercati azionari è sempre presente), e questa reazione emotiva ha un ruolo non trascurabile nel disallineamento di valore fra azioni e obbligazioni che ha caratterizzato il periodo successivo alla crisi finanziaria e persiste ancora adesso.

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