L’asset allocation in vista di Trump presidente

A cura di Philippe Ithurbide, Global Head of Research, Strategy and Analysis, Amundi Am
L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti rappresenta senza dubbio un grande cambiamento sia sul piano politico e diplomatico (stando alle sue dichiarazioni, è prevedibile che in futuro gli Stati Uniti seguiranno meno la logica che li ha portati ad agire come “gendarme del mondo” e che saranno più concentrati sulle dinamiche interne), sia sul piano puramente economico. Il maggior interrogativo riguarda per l’appunto quanto sarà diversa la politica economica, in particolare la politica di bilancio e quella fiscale. Sappiamo che sono previsti tagli delle tasse e un rilancio delle spese infrastrutturali, e che l’impatto sul deficit potrebbe essere pesante, con conseguenze facilmente immaginabili sui tassi lunghi, sul debito pubblico … e sulla politica monetaria.
Tra le altre incognite figura il protezionismo: sappiamo che il candidato Trump “ha promesso” di imporre dazi doganali proibitivi e di rinegoziare i trattati commerciali. Ma sappiamo anche che il Congresso USA, seppur a maggioranza repubblicana, non appoggerà incondizionatamente il nuovo presidente su questi temi: di certo non vede di buon occhio pesanti deficit di bilancio ed è piuttosto favorevole al libero scambio. Tuttavia, anche se i cambiamenti saranno moderati rispetto a quanto annunciato in campagna elettorale, sarebbe tuttavia un errore escludere a priori cambiamenti significativi.
Quale sarà l’impatto complessivo sui tassi a lungo termine e sui mercati azionari? Sono molti gli interrogativi senza risposta in un contesto che, dalla crisi finanziaria, vede la compresenza di tassi d’interesse bassi, la riduzione dell’indebitamento e il rigore di bilancio. La vittoria di Donald Trump apre quindi molti scenari inesplorati, e in questa fase il rischio di un cambiamento sostanziale della politica economica, con un peggioramento del deficit, non è marginale. Dovremo comunque attendere almeno un paio di mesi prima di ricevere qualche risposta a queste domande (insediamento il 20 gennaio, poi discussioni in seno al Congresso). Dopo aver analizzato cosa non cambierà con l’elezione di Trump, esamineremo alcuni dei principali elementi d’incertezza.
Conseguenze per l’asset allocation: Trump, Italia, Austria e altri fattori di rischio. Nel complesso, l’elezione di Trump non cambia radicalmente molte delle tematiche esaminate negli ultimi anni, tuttavia non va sottostimata l’influenza del futuro governo sulla direzione delle politiche fiscali e di bilancio. Anche se i cambiamenti apportati da Trump, una volta eletto, saranno minori di quelli da lui annunciati in campagna elettorale, saranno tuttavia sufficienti per cambiare la configurazione dei mercati perlomeno per alcuni mesi.
Le prime avvisaglie ci sono già: il rialzo dei tassi lunghi (ora meno del 30% del mercato del credito si trova in territorio negativo rispetto al 50% di due mesi fa), le prospettive di una stretta monetaria da parte della Fed e una curva più ripida dei tassi sono solo alcuni dei motivi che rendono i titoli finanziari più interessanti di quanto non fossero tempo fa. Si noti che per la prima volta in otto anni, la Fed potrebbe tener fede alle sue previsioni, ovvero tre rialzi dei tassi in poco più di un anno. Tuttavia, si deve riconoscere che tale risultato è possibile perché la Fed ha rivisto pesantemente al ribasso le sue previsioni sui tassi (i “dot“) Per quanto riguarda i mercati obbligazionari, l’insediamento di Donald Trump non rappresenta l’unico elemento d’incertezza.
Gli appuntamenti elettorali europei – il recente referendum in Italia e le elezioni del presidente austriaco -ci hanno già indotto a ridurre la quota di rischio nei nostri portafogli, soprattutto per quanto riguarda i Paesi periferici della zona Euro. Noi manteniamo questo approccio. Abbiamo continuato a ridurre il sovrappeso sul credito e l’attuale configurazione dovrebbe diventare gradualmente più favorevole alle obbligazioni indicizzate all’inflazione e alle obbligazioni finanziarie. Per quanto riguarda il debito emergente, continuiamo a seguire il nostro corso e a mantenere la preferenza per il debito denominato in dollari. Privilegiamo le obbligazioni societarie USA rispetto alle loro omologhe europee.
Per quanto riguarda le azioni, continuiamo a preferire un po’ più i mercati americani (repricing della crescita, tematiche interne) rispetto a quelli europei (contesto politico attualmente sfavorevole) o dei Paesi emergenti (il dibattito che circonda le tariffe doganali, i tassi più alti ecc. non compensa totalmente l’effetto positivo dell’ultima riunione dell’OPEC). Per quanto riguarda i settori, in Europa siamo sovrappesati sui titoli farmaceutici ed energetici, con particolare focalizzazione sui titoli industriali. Rimaniamo sottopesati sul settore automobilistico. Siamo diventati un po’ più favorevoli ai titoli finanziari.
Per quanto riguarda i mercati valutari, manteniamo la nostra posizione lunga in dollari, in particolare rispetto all’euro, e la nostra prudenza a breve termine sulle valute dei Paesi emergenti. La sterlina dovrebbe rafforzarsi leggermente sull’euro, ma questa tendenza non sarà sostenibile viste le incertezze legate alla Brexit.

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