Nel 2017 si decideranno le sorti dell’Europa?

A cura di Christophe Bernard, Chief Strategist di Vontobel   

Nel suo celebre discorso di Zurigo del settembre 1946, Winston Churchill esortò l’Europa devastata dalla guerra a risorgere dalle ceneri. Il suo appello può aver ispirato la creazione dell’Unione Europea, ma Churchill suggeriva chiaramente che il Regno Unito doveva restare fuori dai nascenti “Stati Uniti d’Europa” – una profezia che si è stranamente avverata dopo la recente decisione sulla “Brexit”. Oggi molte persone hanno l’impressione che l’Europa sia giunta a un punto di svolta. I compiti da affrontare sono ben diversi da quelli di 70 anni fa, ma altrettanto complessi.

Le molteplici sfide dell’Europa evocano un quadro cupo. L’anemica crescita economica, l’alto grado di indebitamento e le differenze strutturali tra l’Europa “core” e la cosiddetta periferia sono già di per sé fenomeni preoccupanti.   Come se non bastasse, sono ora esacerbati dalla decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione Europea e dall’avanzata di forze politiche populiste ed euroscettiche. Tutti questi sviluppi sono indubbiamente una minaccia per il progetto europeo. Iniziamo con la situazione politica.

L’emergere di partiti populisti in tutto il continente (come la Alternative für Deutschland in Germania e il Front National in Francia, solo per citarne alcuni) o la loro salita al potere in Ungheria, Polonia e Grecia hanno un denominatore comune: che siano di sinistra o di destra, sono tutti “anti-Bruxelles”. Le istituzioni europee sono percepite come non-democratiche, favorevoli a un capitalismo sfrenato e incapaci di affrontare i problemi della migrazione e della sicurezza. L’avvento del populismo non è però confinato solo all’Europa, come dimostra la recente elezione presidenziale negli USA. I populisti si servono in generale di una visione “binaria”, distinguendo il popolo “vero” da tutti gli “altri”, una categoria che include i cittadini cosmopoliti, internazionalisti e spesso fautori taciti dell’ordine liberale mondiale.

Manca un “sogno” unificatore europeo

Le cause di questo fenomeno si estendono dal livello sovranazionale a quello individuale: innanzitutto il progetto europeo manca di un “sogno”, di un fine. Il fatto che abbia contribuito alla pace dal 1945 non è più considerato un motivo sufficiente. Da quando la Francia ha perso il suo ruolo di alter ego nell’asse franco-tedesco, il peso si è spostato automaticamente sulla Germania che però, alla luce della sua storia, è riluttante ad assumere la guida. In secondo luogo, i membri della Commissione Europea non sono eletti, il che dà adito a critiche sulla loro legittimazione democratica. Molti burocrati europei che rivestono alte cariche mancano del carisma o della dimensione emotiva che posseggono invece alcuni leader populisti.

Infine, l’emergere di “uomini forti” come Vladimir Putin, Xi Jinping, Recep Tayyip Erdogan o Donald Trump, la maggior parte dei quali considerano l’Europa strutturalmente debole, non concorre certo a migliorare la situazione. Ciò nonostante, i partiti populisti sono ancora lungi dalla meta. È poco probabile per esempio che Marine Le Pen, leader del Front National francese, riesca a vincere le prossime elezioni presidenziali in Francia. In Germania si riaffermerà probabilmente l’abituale ordine politico.

Angela Merkel sembra avere buone chance alle elezioni del prossimo autunno, anche se dovrà governare con una grande coalizione potenzialmente debole. In Italia è tutt’altro che chiaro se alle eventuali elezioni anticipate del 2017 il Partito Democratico (PD) dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi perderà terreno rispetto al partito di protesta Movimento Cinque Stelle. L’esito più probabile rimane una coalizione tra il PD e il partito dell’ex premier Silvio Berlusconi. Non è invece da escludere che i populisti facciano breccia nei Paesi Bassi, dove il leader di estrema destra Geert Wilders è dato come vincitore alle prossime elezioni. Per lui sarà però difficile ricevere abbastanza sostegno dai partiti tradizionali per poter assumere le redini del paese.

La situazione non è così grave come sembra

Indipendentemente dal paesaggio politico, la situazione economica è probabilmente migliore di quanto percepito in generale. Le incertezze legate alla Brexit non hanno avuto finora un impatto tangibile sull’economia. Una crescita intorno all’1,5 percento è di nuovo sul tavolo per il 2017. Gli ostacoli sono però ancora elevati. L’attività di prestito in Europa non è ancora decollata e la colpa viene data all’incompiuta unione bancaria. Sussistono ancora forti dubbi sulla forza di capitale delle banche, soprattutto in Italia. Si osserva una tacita corsa agli sportelli – un flusso di capitali dal sud al nord dell’Europa, in particolare verso la Germania, il che riflette la diffusa mancanza di fiducia nei confronti dei paesi periferici dell’eurozona.

Una tale situazione non è certo vista di buon’occhio dalla Banca centrale europea (BCE). Infine, i mercati azionari europei segnano il passo dal 2007, perché gli utili societari – contrariamente agli sviluppi negli USA – rimangono inferiori ai picchi registrati negli anni 2007 e 2008. Una ripresa su questo fronte potrebbe però essere imminente, complici la recrudescenza dell’inflazione, l’accelerazione della crescita economica mondiale e il rimbalzo della redditività di settori gravemente colpiti, come le banche ed il settore energetico.

A ciò si aggiungono la debolezza dell’euro e la politica estremamente accomodante della BCE (non prevediamo un rialzo del tasso guida, rispetto all’attuale livello di zero, prima di metà 2019). A nostro parere, tutto ciò dovrebbe consentire un periodo di due-tre anni di crescita a due cifre dell’EPS. Per concludere: alla luce delle incertezze politiche e degli utili societari tuttora deludenti, non stupisce che gli investitori internazionali siano sottopesati in Europa e nell’eurozona in particolare. Tuttavia il pessimismo dilagante potrebbe essere un segnale di acquisto, perché le attese depresse sono facili da superare. L’eurozona potrebbe rivelarsi la sorpresa di quest’anno.

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