Robotica e protezionismo, quale impatto per economia e mercati?

A cura di Matteo Ramenghi, Chief Investment Offcer, UBS WM Italy
L’economia e la società, soprattutto nelle regioni avanzate, sono investite da due cambiamenti dirompenti: la robotica e l’inversione di rotta sulla globalizzazione. Se queste due trasformazioni vengono spesso discusse da economisti, analisti e media, è più diffcile trovare un’analisi di quale potrebbe essere il combinato disposto dei due sull’economia e sui mercati fnanziari. Nessuno può  prevedere con precisione il futuro, ma possiamo immaginarci diversi scenari possibili – qui ne discuteremo quattro – per anticipare le possibili implicazioni per i mercati e portafogli.
Il primo cambiamento è di natura tecnologica e prende il nome di «quarta rivoluzione industriale o Industria 4.0». Si tratta della inevitabile trasformazione di prodotti, processiproduttivi e aziende derivante dalla crescente diffusione della robotica e dell’intelligenza artifciale. Esse hanno un effetto pervasivo sulle linee di produzione, le banche, gli uffci e perfno le strade (guida autonoma). È un trend potente e inarrestabile che Paesi e aziende dovranno gestire tempestivamente per non esserne travolti.
La paura che la tecnologia possa ridurre l’occupazione risale alla prima rivoluzione industriale ma, fno ad ora, nel giro di qualche anno, o al massimo decennio, dall’introduzione di innovazioni tecnologiche la forza lavoro si è sempre adattata e riqualifcata riuscendo a inventare nuove professionalità.
Circa un secolo fa, il 60% dei lavoratori negli Stati Uniti era occupato in fabbriche o nelle campagne; oggi questa percentuale è scesa al 20% ma, da allora, il mercato americano ha creato oltre 100 milioni di posti di lavoro. Quale potrebbe essere quindi l’impatto delle innovazioni tecnologiche sul mercato del lavoro? Ci immaginiamo due possibili scenari (estremi ed opposti):
Il mercato del lavoro si adatterà alla robotica: la forza lavoro si riqualifcherà creando nuove professionalità, si creerà una domanda per prodotti artigianali ad alto valore aggiunto, aumenterà il bisogno di lavori con un alto contenuto creativo, mentre anche i fattori demografci (invecchiamento della popolazione) consentiranno di creare nuova occupazione.
Perdita massiccia di posti di lavoro: una ricerca della Oxford University indica come il 47% dei posti di lavoro sia vulnerabile a processi di automazione. L’aumento della disoccupazione, la  crescente polarizzazione della società e il bisogno di riqualifcare una larga parte della forza lavoro creeranno un ulteriore stress per le fnanze pubbliche.
In entrambi i casi è comunque ipotizzabile che, in seguito all’abbattimento dei costi di manodopera per via della robotica, ci possano essere fenomeni di reshoring, vale a dire lo spostamento dei processi produttivi nei Paesi dove si genera gran parte della domanda o in quelli tecnologicamente più avanzati. Si tratta del processo inverso rispetto all’offshoring che ha portato nei decenni passati a spostare la produzione nei Paesi con più basso costo della manodopera.
L’altra trasformazione in corso è in realtà una marcia indietro sulla globalizzazione. Se tra il 1980 e il 2010 il valore degli scambi commerciali è più che triplicato, per poi entrare in stallo, l’aumento della disoccupazione in seguito alla crisi e la conseguente avanzata dei populismi hanno portato con sé un ripensamento sull’apertura dei commerci e una tentazione protezionistica – come evidente anche nel programma di Trump. In questo caso i due scenari estremi potrebbero essere:
La globalizzazione riprenderà la corsa: l’evidenza europea mostra come i cittadini della UE, soprattutto i più giovani, siano divenuti più favorevoli ad essa in seguito al referendum sulla Brexit. La globalizzazione, dal punto di vista economico, è considerata un fattore positivo, anche se restano aree di miglioramento nella distribuzione della ricchezza creata.
Prevarrà il protezionismo: in molte delle principali economie verranno alzate delle barriere al libero scambio. Il protezionismo creerà l’illusione di una maggiore occupazione ma eroderà il potere di acquisto delle famiglie e, indirettamente, contribuirà ad accrescere inflazione e debito pubblico.
Lo scenario positivo prevede che il mercato del lavoro si adatti ai cambiamenti tecnologici e che la globalizzazione riprenda il proprio corso, lo scenario nega tivo sarebbe il suo opposto e ci  potrebbero essere situazioni intermedie, anche per periodi limitati di tempo. Quello che però più ci preme evidenziare sono gli elementi di continuità nei vari scenari e alcune conclusioni che possono applicarsi, già oggi, ai portafogli.
Azionario ancora da preferire: veniamo da un periodo molto positivo per i mercati fnanziari. Negli ultimi 30 anni il ritorno medio dell’S&P 500 è stato di oltre il 10%, ben al di sopra del mercato obbligazionario. Anche se per il futuro ci si può aspettare una performance inferiore dal mercato azionario – la nostra aspettativa va dall’8,8% per i mercati emergenti al 7% per gli Stati Uniti – in quasi tutti gli scenari presi in considerazione le performance dovrebbero comunque restare positive e molto superiori rispetto ai ritorni attesi del mercato obbligazionario, sostanzialmente nulli per i titoli di Stato europei «core» e comunque compressi anche per le categorie più rischiose come l’high yield.
Volatilità bassa ma poco prevedibile: la struttura della volatilità di mercato tende a variare nel tempo. In seguito alla bolla Internet, tra 1999 e il 2002, è rimasta molto elevata; poi è crollata tra il 2003 e il 2006, per esplodere durante l’ultima crisi tra il 2007 e il 2011. Da allora è stata molto contenuta, raggiungendo i suoi minimi storici anche grazie alle politiche espansive delle banche centrali. Nella maggioranza degli scenari che abbiamo preso in considerazione, la volatilità dovrebbe confermarsi contenuta, ma con un andamento erratico e poco prevedibile. In qualche misura, si tratta di una situazione simile a quella vissuta ad agosto 2015 o a gennaio 2016, dove la volatilità, partendo da livelli estremamente contenuti, è salita vorticosamente senza che ve ne fossero suffcienti ragioni economiche, per poi assestarsi nuovamente sui minimi storici.
Cosa signifca questo per i portafogli? La volatilità non è un’asset class di per sé, ma studiarla ci aiuta a comprendere come agire nei momenti di stress di mercato – come ad inizio 2016, quando abbiamo deciso di rimanere investiti nel mercato azionario.
La diversifcazione resterà centrale: il principio alla base della diversifcazione tra asset class è di ridurre la volatilità di un portafoglio, senza rinunciare ai rendimenti. Negli ultimi anni, soprattutto nella fase iniziale della crisi, la correlazione tra le diverse asset class – cioè la tendenza di queste ultime a muoversi in maniera concomitante – è però aumentata limitando, almeno temporaneamente, i benefci della diversifcazione.
Nella maggior parte degli scenari che abbiamo preso in considerazione ci potrebbe essere un  aumento della correlazione tra asset class; questo per via dell’aumento dell’indebitamento pubblico preso in considerazione, che potrebbe creare un «contagio» tra azionario e titoli di Stato (come nel periodo 2010–2012) e spingere le banche centrali verso il mantenimento di politiche espansive a lungo termine. Questo però non signifca che la diversifcazione sarà meno importante: resta invece più che mai al centro delle strategie d’investimento.

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