A dieci anni dal fallimento di Lehman Brothers l’industria del risparmio deve ancora fare i conti con il conflitto di interessi

A cura di Andrea Rocchetti, Responsabile Area Consulenza di Moneyfarm
Durante gli ultimi 10 anni si è molto dibattuto riguardo le cause della crisi finanziaria del 2008 e della lunga recessione che ne è seguita. Il filo conduttore sembra essere la presenza di dinamiche di conflitto di interessi a tutti i livelli della filiera dei prodotti finanziari. Stiamo parlando di un’industria che si sviluppa proprio intorno alla necessità di gestire gli interessi economici delle persone e il conflitto può manifestarsi in diversi modi e a vari livelli.
Molto si è parlato delle dinamiche di conflitto di interessi a livello macro, tra banche e banche, tra banche e politica, tra banche e regolatori, e della loro relazione con l’instabilità del sistema finanziario. Più sottotraccia, almeno per quanto riguarda l’elaborazione giornalistica e accademica, è passato il conflitto di interessi che si genera intorno al rapporto tra intermediari e investitori, ovvero che concerne il segmento retail del mercato dei servizi finanziari. Questo tema, d’altronde, era ampiamente sottovalutato anche in passato, tant’è che la disciplina giuridica pre crisi non si era particolarmente curata di fornire una definizione completa del concetto, consentendo ampi margini (forse troppo ampi) di discrezionalità agli operatori.
Il tema è di stringente attualità perché in Italia, negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi, la ricchezza dei privati è cresciuta in termini assoluti dal 2008 di quasi 1.000 miliardi di euro, arrivando a toccare secondo Bankitalia la quota di 4.400 miliardi di euro. Nello stesso periodo l’opinione pubblica è rimasta scioccata dai moltissimi casi di risparmio tradito che hanno rischiato di compromettere la reputazione di un’intera filiera. Filiera che sta peraltro attraversando una fase di transizione industriale e tecnologica: se nel 2008 si contavano oltre 61.000 promotori finanziari (di cui 40.000 attivi) e circa 32.000 sportelli bancari, oggi i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede sono meno di 56.000 (di cui 35.000 attivi) e gli sportelli circa 27.000. Un taglio rispettivamente del 10% e del 15% in 10 anni, addirittura del 60% se si guarda ai consulenti under 40.
In Italia, la scarsa diffusione dell’educazione finanziaria rende il conflitto d’interessi ancora più centrale: suggerireobbligazioni subordinate senza valutare con attenzione profilo di rischio e obiettivi di investimento del cliente, o “spingere” a sottoscrivere azioni o polizze assicurative in cambio di un mutuo sono esempi di pratiche di conflitto di interessi rese possibili da un Paese in cui il 33% della popolazione non comprende i vantaggi della diversificazione (secondo la Relazione Annuale Consob, elaborazione dati Gfk Eurisko) – nel 2007 questa percentuale si attestava addirittura al 40%. Vista la centralità che il tema ha avuto negli ultimi 10 anni, ci saremmo aspettati senz’altro una consapevolezza maggiore.
Sembra dunque evidente che per far fronte alla crescente domanda di consulenza finanziaria, in un mercato sempre più competitivo, l’unica direzione possibile sia quella dell’evoluzione verso un modello caratterizzato da maggiore trasparenza e dal pieno controllo del conflitto di interessi.
Si tratta di un processo di fondamentale importanza anche per garantire la stabilità e la tenuta del sistema finanziario. La storia recente ci ha insegnato infatti che non esiste riforma efficace senza che si proceda con un profondo riordino della fase conclusiva del ciclo di vendita dei prodotti finanziari. In generale le azioni legislative intraprese sono state spesso foriere di distorsioni e contraddizioni: il bail in ad esempio, norma che è stata introdotta per limitare i conflitti di interesse a livello di management bancario, ha finito per lasciare esposti migliaia di risparmiatori, costringendo lo Stato a intervenire e andando quindi a vanificare il senso della norma stessa. Insomma, una maturazione del mercato retail è necessaria per ottenere un’industria finanziaria robusta e inclusiva.
In questa direzione il passo più significativo è sicuramente la direttiva MiFID nelle sue due versioni, che ha aperto la strada alla figura del consulente finanziario indipendente anche in Italia. Il processo non è stato privo di resistenze: si pensi che la sezione dell’albo destinata a queste figure non è ancora attiva (anche se lo sarà entro la fine dell’anno). Tuttavia, si intravedono dei segnali incoraggianti nel modo di operare degli addetti ai lavori: non si trovano (quasi) più distributori esclusivi di prodotti “della casa” e inizia a prendere realmente piede il cosiddetto “multibrand”. Sebbene lontani dall’avere una filiera distributiva eterogenea, il peso percentuale del patrimonio “proprio” promosso dalle reti è passato in 10 anni da circa l’80% al 70%, a vantaggio delle case “terze”. Un trend accompagnato anche da un costante incremento della presenza di asset manager stranieri, a svantaggio dei fondi di diritto italiano, il cui peso è passato da oltre il 50% al 25% in 10 anni. Queste pressioni sono state purtroppo parzialmente scaricate sul prezzo dei prodotti che è salito in media dall’1,6% all’1,9% (in termini di Total Shareholder Cost).
Sarà interessante capire se la recentissima normativa MiFID II mescolerà ulteriormente le carte in tavola. L’intento, almeno sulla carta, è quello di tutelare quanto più possibile il risparmiatore e agire anche su tematiche finora trascurate come la product governance e l’attenzione ai costi, accostando la consulenza sempre più al concetto di “servizio” anziché di “prodotto”.
 Probabilmente ciò porterà a una diminuzione degli accordi distributivi, un incremento delle soluzioni “contenitore” (come Gestioni Patrimoniali o Polizze Ramo III) e a un maggior investimento nella competenza degli operatori, con conseguente diminuzione del loro numero (come avvenuto in UK con l’avvento della Retail Distribution Review). Quello a cui auspichiamo è che tutto questo si traduca in una diminuzione dei costi per il cliente finale e, soprattutto, in un rapporto sempre più allineato tra intermediario e risparmiatore: solo così l’industria del risparmio potrà dimostrarsi all’altezza del proprio compito storico in questa fase delicata.

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