Addio alla fase rialzista del mercato obbligazionario

A cura di Jim Cielinski, Responsabile reddito fisso globale di Columbia Threadneedle Investments
Con una serie di eventi che hanno cambiato in  un modo senza precedenti il panorama politico  mondiale, dal referendum sull’appartenenza  all’UE nel Regno Unito all’elezione di Donald  Trump fino alla consultazione referendaria in  Italia, il 2016 ha mutato irrevocabilmente i  fattori principali che plasmano i mercati. È stato un anno contrassegnato da due fasi  distinte. Il rally delle obbligazioni a inizio anno è  stato più ampio del previsto, con ripetute spinte  deflazionistiche sul mercato, e ciò ha ricordato  agli investitori che il rischio geopolitico era  ancora ben presente.
Ne è conseguito un rally  di particolare intensità, frenato dalla Brexit, con  i rendimenti sui gilt decennali che sono passati  dal 2% di inizio anno a quasi lo 0,5% a luglio,  prima di tornare sull’1,5% a fine anno. Con il senno di poi, l’ulteriore intervento di  quantitative easing all’indomani del referendum  sulla Brexit appare sempre più come il canto  del cigno della politica monetaria. È molto  probabile che la correzione verificatasi nel  secondo semestre dell’anno abbia segnato un  punto di inflessione decretando la fine della  lunga fase rialzista delle obbligazioni, innescata  da un mix di sopravvalutazioni estreme  contrapposte all’aspettativa che le regole in  futuro cambieranno.
A nostro parere, era probabile che la bolla obbligazionaria scoppiasse, non a causa di  un’improvvisa accelerazione della crescita o dell’inflazione, bensì per effetto di un cambiamento  politico che avrebbe mutato le regole e scosso la compiacenza. Il mondo si sta lentamente  abituando all’idea che la politica monetaria sta progressivamente facendo spazio a una politica  fiscale espansiva. La vittoria di Trump ha rappresentato un punto di partenza inatteso per  inaugurare questo trend, ma il segnale che ha lanciato sarà difficile da contenere.
La classe media, sentendosi marginalizzata,  ha detto la sua: i tassi negativi e il quantitative  easing sono mezzi inadeguati per aumentare  il suo tenore di vita. Le regole del gioco  devono cambiare. E se l’attuale establishment  politico non è disposto a farlo, si troverà ben  presto mandato a casa dal voto popolare,  sostituito con qualcun altro che è intenzionato  a procedere. Per un certo tempo, i mercati si  sono abituati a pensare che qualsiasi dato  deludente relativo alla crescita e all’inflazione  sarebbe stato fronteggiato con una riduzione  dei tassi o un intervento di quantitative easing.
Ma il ricorso a questi strumenti è apparso  sempre più come un tentativo estremo di  rilanciare la crescita economica. Ora che la  politica monetaria ha esaurito le frecce del suo  arco, si diffonde la consapevolezza che lasciare  alle banche centrali il compito di assorbire  un’offerta di obbligazioni in costante calo ha i  suoi lati negativi. Aumento della spesa e sgravi  fiscali appaiono come le prossime soluzioni  sul tavolo, ma l’incentivazione fiscale ha effetti  inflazionistici. E, in un contesto di normalità, le  obbligazioni risulterebbero penalizzate. Dato  che proveniamo da un punto di partenza in stile  bolla, questa prospettiva appare ancora più  preoccupante.
Dopo il forte calo dei tassi d’interesse a lungo  termine avvenuto a metà 2016, i mercati  obbligazionari hanno scontato un rischio  inflazionistico basso per almeno un decennio  a venire. Ma se le regole cambieranno, come  prevediamo, i premi a termine probabilmente  si normalizzeranno e l’idea che gli investitori  debbano scontare una disinflazione  permanente si dissolverà del tutto. In questo  contesto, è probabile che le obbligazioni  continuino a registrare una correzione. Se l’intero programma di Trump diventasse  realtà, la fase ribassista del mercato avrebbe  ancora molta strada da fare.
Alla luce di questo, riteniamo che gli investitori  dovrebbero monitorare tre segnali chiave da  cui è possibile comprendere quanto ancora  saliranno i rendimenti obbligazionari. Uno: le aspettative di  inflazione Se lo stimolo fiscale diventa lo strumento di  politica prediletto, è prevedibile una reazione  inflazionistica. Il termine “fiscale” sottintende  un aumento della spesa, che dovrebbe  stimolare la crescita oltre ad ampliare i  deficit.
Crescita e inflazione, se abbinate alla  deregolamentazione (cosa che ci aspettiamo  dalla presidenza Trump), inducono le aziende  a spendere di più e possono creare un circolo  virtuoso che ha effetti particolarmente negativi  sulle obbligazioni. Tuttavia, le aspettative  inflazionistiche variano anche in funzione  delle pressioni salariali e del protezionismo  commerciale. Gli Stati Uniti sono prossimi  alla piena occupazione e la crescita dei salari  potrebbe accelerare dato che i mercati del  lavoro sono contratti e un numero elevato  di persone fuoriuscite dalla forza lavoro  non farà rientro.
Le pressioni salariali, unite  all’incentivazione fiscale e a un orientamento  maggiormente protezionistico (che è di per sé  inflazionistico per effetto dei dazi commerciali e  dell’immigrazione), contribuiranno al persistente  aumento delle aspettative di inflazione rispetto  ai livelli attuali ancora molto bassi. Due: Cina La Cina dovrebbe essere monitorata molto  attentamente. I tassi a lungo termine globali  rispecchiano un decennale fenomeno di  deflussi di capitale dalla Cina. La banca  centrale ha acquistato centinaia di miliardi  di obbligazioni estere.
Questo programma di  acquisti obbligazionari è il risultato di anni  caratterizzati da un eccesso di investimenti  in impianti e macchinari, che a sua volta ha  comportato una sovrapproduzione e capacità  in eccesso. I deflussi di capitale dalla Cina  esercitano un’immensa pressione ribassista  sui tassi reali globali e sui premi a termine. L’economia cinese ha rallentato il passo.
Un  eccesso di risparmio, la stagnazione degli  investimenti societari e i timori per la potenziale  svalutazione dello yuan hanno contribuito a  incoraggiare la fuoriuscita di capitali verso  l’estero. Ma basterebbe che l’economia  cinese si stabilizzasse per fungere da ulteriore  catalizzatore di una correzione obbligazionaria.  Una rinnovata accelerazione a sorpresa  della Cina innescherebbe un rapido ritiro dei  flussi esteri, lasciando i titoli di Stato globali  privi di una fonte fondamentale di domanda.
Preoccupa in una certa misura il fatto che si  riscontrino già segnali di questa tendenza,  proprio mentre Donald Trump si appresta a  porre in atto alcune delle sue proposte, per  quanto ciò appaia come una coincidenza. Tre: l’Europa e il contesto  geopolitico Quello che accade in Europa, da un punto di  vista geopolitico, avrà un’importanza cruciale.
Nel 2016 abbiamo già visto come il Regno Unito  abbia votato in favore della fuoriuscita dall’UE,  mentre l’elettorato italiano ha respinto la riforma  costituzionale del primo ministro Matteo Renzi.  Nel corso di quest’anno sono in programma  elezioni in Francia e in Germania, senza  dimenticare l’invocazione dell’Articolo 50.
Il continuo spostamento degli orientamenti  politici a destra comporterebbe l’attuazione di  un maggior numero di provvedimenti populisti.  In Europa, il margine di intervento per ridurre  le imposte e aumentare la spesa è limitato  perché la politica fiscale è vincolata dal trattato  di Maastricht, che impone ai governi degli  Stati membri di mantenere il deficit entro il  3% del PIL (e il debito pubblico entro il 60%).  Tuttavia, se venissero eletti partiti populisti  che si dicono intenzionati a contravvenire a  queste regole, i rischi riguardanti il progetto  dell’Eurozona aumenterebbero. Per ironia della  sorte, questa congiuntura farebbe dell’Europa  un terreno fertile per un aumento complessivo  dei tassi, piuttosto che per una riduzione.
La bolla obbligazionaria sta scoppiando.  Quanto sarà forte la detonazione? Non è  possibile prevederlo, poiché numerose forze  deflazionistiche stanno ancora ribollendo  appena sotto la superficie e le incertezze  politiche sono molteplici. Quasi certamente,  Trump riuscirà a far approvare gli sgravi  fiscali e una versione edulcorata del suo  pacchetto di misure per aumentare la spesa  destinata a infrastrutture e difesa. La Cina è  in fase di stabilizzazione e, di conseguenza,  diminuisce la sua dipendenza dalle politiche  monetarie accomodanti. I deflussi di capitali  probabilmente diminuiranno con la rivalutazione  dello yuan e la poderosa forza rappresentata  dagli acquisti della banca centrale (sotto  forma di investimenti o di QE) si smorzerà.
Per  quanto riguarda l’Europa, è molto difficile fare  previsioni, ma sarebbe sbagliato estrapolare ciò  che è accaduto nel Regno Unito con la Brexit (o  con l’elezione di Donald Trump e il referendum  in Italia). Ciononostante, quello che prima  appariva impossibile è diventato possibile. A nostro avviso, le aspettative inflazionistiche  continueranno a crescere rispetto ai livelli  attuali ancora molto bassi. L’economia  statunitense è prossima alla piena  occupazione. L’inflazione dei salari, abbinata a  un modesto protezionismo e a una prolungata  ripresa, dovrebbe stimolare aspettative di  inflazione elevate.
Prevediamo che i tassi di riferimento in  Europa resteranno più bassi ancora per un  certo tempo dato che l’incertezza (legata  non soltanto al rischio geopolitico ma anche  ai timori per la solidità di alcune economie  nella regione) è ancora tale da consentire  alle banche centrali di persistere con la  politica dei tassi “più bassi più a lungo”.  Anche in Giappone un rialzo dei tassi appare  improbabile, di conseguenza gli Stati Uniti  restano in un certo senso alla ribalta. Dato  l’aumento delle pressioni salariali e della spesa  fiscale, prevediamo ulteriori innalzamenti dei  tassi nel 2017 dopo quello deciso dalla Fed a  dicembre. Il vento è cambiato.

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