Alla fine solo i tassi si sono mossi sul serio

I mercati non vanno mai in vacanza, ma gli investitori sì. Volendo riassumere quello che è successo nelle ultime settimane per chi è stato via, viene da dire che è successo di tutto ma non è cambiato molto. Lo spettacolo è stato e continua a essere avvincente e ricco di colpi di scena, ma se si guardano le cose con un po’ di prospettiva si nota una certa circolarità del percorso, ovvero una tendenza a ritornare periodicamente al punto di partenza.

Prendiamo ad esempio Brexit, un tema su cui il Regno Unito sembra tornare a essere quel grande laboratorio politico che è stato tante volte nella sua storia. A leggere notizie e commenti ci si può fare l’idea di un paese con il Parlamento sospeso, di una sorta di colpo di stato morbido, di maggioranze parlamentari che collassano, di grandi manifestazioni contro la svolta autoritaria, di elezioni anticipate che non si riescono nemmeno a indire, di una Camera dei Lord occupata come un’università del 1968 per resistere a una Brexit senza accordo, di una sterlina che crolla ma non si capisce bene contro cosa, dal momento che, contro euro, è esattamente e perfettamente allo stesso livello di 365 giorni fa. Quanto alla borsa di Londra, la perdita degli ultimi 12 mesi è di uno striminzito 1,7 per cento, quando Francoforte guadagna lo 0,7.

Tutta questa febbre e concitazione quando il punto di caduta più realistico per tutti i protagonisti, da Johnson a Corbyn, è identico, ovvero una Brexit con accordo. Johnson ha provato a imbavagliare il Parlamento per potere avere più forza negoziale con l’Europa e arrivare a un accordo un po’ più favorevole. Ora cerca le elezioni per arrivare con più forza allo stesso obiettivo. La minaccia di una Brexit no deal è per lui un’arma negoziale anche se, trumpianamente, la minaccia deve riuscire a fare paura. Corbyn, dal canto suo, chiede, per andare al voto, una Brexit con accordo, esattamente quello che alla fine vuole Johnson. Tanto rumore per nulla.

Tanto rumore per nulla, per ora, anche sui negoziati tra Cina e Stati Uniti, dove ormai da un anno e mezzo assistiamo a variazioni sul tema di uno scontro strategico e secolare da una parte e di un bisogno di contenere i danni e di non rompere troppo i rapporti dall’altra. Le variazioni assumono ampiezze diverse e l’ultima, con l’ordine di prepararsi a lasciare la Cina impartito da Trump alle imprese americane, suona più carica di conseguenze delle altre. Ma ai toni in crescendo è seguita anche questa volta la disponibilità a riaprire le trattative. E anche qui il punto di caduta rimane sempre lo stesso e con le stesse tre varianti. La prima è un accordo ristretto con qualche speranza di essere applicato, la seconda è un accordo più ampio che la Cina non rispetterà mai, la terza è la prosecuzione a oltranza di trattative alternate a rotture reversibili.

Anche le borse girano in tondo ormai da quasi due anni. Rispetto a dodici mesi fa l’indice SP 500 è salito del 2.7 per cento, ma se allarghiamo lo sguardo al mondo, l’indice è invariato. Come è possibile che, in dodici mesi in cui si è passati da una narrazione di ampia crescita generalizzata a una completamente diversa di rischi seri di recessione (peraltro ormai conclamata e globale nel manifatturiero), le borse siano allo stesso livello? La risposta, naturalmente, sta nei tassi, scesi drammaticamente ovunque. I tassi, dunque, e non le Brexit o le guerre commerciali, sono il vero fattore decisivo. E continueranno a esserlo fino alla metà dell’anno prossimo, quando un altro fattore, le elezioni americane, prenderà il loro posto.

Quello che rende singolare questa fase è che le politiche monetarie, che generalmente seguono abbastanza da vicino l’andamento dell’economia e delle borse, sono questa volta preimpostate in senso espansivo qualunque sia alla fine l’andamento del ciclo e dei mercati. È una distorsione simmetrica rispetto a quella del 2017-2018, quando le politiche monetarie sono state preimpostate in senso restrittivo con programmi rigidi (si pensi al Quantitative tightening) senza badare troppo all’andamento sottostante del ciclo economico.

Certo, all’interno delle banche centrali c’è un dibattito vivacissimo su quanto essere espansivi (per il prossimo Fomc si va dai 50 punti di taglio di Bullard allo zero di Rosengren), ma non c’è nessun banchiere centrale che si sogni di proporre un rialzo per i prossimi 12 mesi.

Questo ci offre due possibilità. Nel caso l’economia rallenti ancora, i tagli dei tassi e la ripresa del Quantitative easing limiteranno i ribassi delle borse al minimo (si veda la discesa di agosto, il 5 per cento sull’indice globale). Se però dovessimo assistere a sorprese positive (e in questo clima basterebbe poco) i mercati si ritroverebbero economie che migliorano e tassi che comunque sono preimpostati a scendere. In questo caso il potenziale di rialzo, da qui a metà 2020, potrebbe arrivare al 10 per cento.

Sarà il canto del cigno del rialzo decennale? È possibile. Andrà certamente cavalcato con prudenza, ma non al punto da rinunciarvi del tutto.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners

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