Anatomia di una bolla obbligazionaria

Di Jim Cielinski, Responsabile reddito fisso globale di Columbia Threadneedle Investments

La maggior parte dei titoli di Stato dei paesi sviluppati stanno evidenziando caratteristiche compatibili con una bolla di mercato. Sarà difficile prevedere quando finirà l’attuale rally obbligazionario, ma qualche indizio si sta già manifestando per chi è capace di osservare con attenzione.
Dalla Silicon Valley al Mar Cinese Meridionale, una bolla può crearsi ovunque. Oggi, potrebbe essere la volta dei mercati sovrani nei paesi sviluppati che sono stati artificialmente surriscaldati. I rendimenti obbligazionari negativi sono apparsi inizialmente come una conseguenza di breve termine del quantitative easing e dei tassi di riferimento ridotti. Nel tempo però sono diventati una costante, con titoli per oltre USD 13.000 mld che nel secondo trimestre hanno generato rendimenti inferiori a zero. Nel periodo aprilegiugno, i titoli di Stato decennali in Germania, Giappone e Regno Unito hanno toccato quota -0,19%, -0,30% e +0,52% rispettivamente. Il mercato dei Treasury statunitensi ha mantenuto un tenore di rendimento relativamente elevato, con un minimo pari all’1,35% nel mese di luglio. Le valutazioni hanno raggiunto livelli estremi, eppure gli acquisti non si arrestano. Questa tendenza suscita il timore che i rendimenti obbligazionari stiano entrando in un territorio a rischio bolla. Dopo tutto, i tassi negativi praticamente garantiscono agli investitori un rendimento nominale sotto lo zero sulle loro attività e spesso si tratta di obbligazioni con scadenze che arrivano a dieci anni. Mai prima d’ora i mercati avevano dovuto fare i conti con valutazioni stellari di questa portata. Di seguito proponiamo un esempio dal Regno Unito, dove i rendimenti obbligazionari si attestano su minimi storici da quando le rilevazioni sono cominciate all’inizio del XVIII secolo. L’andamento evidenziato in questo caso si ripropone con forti somiglianze nei diversi mercati sviluppati. A quanto sembra, la storia viene riscritta.
Parametri di valutazione alternativi tracciano un quadro simile. Secondo alcuni, è comprensibile che i rendimenti obbligazionari siano bassi semplicemente perché lo è anche l’inflazione. Purtroppo, però, questa spiegazione non regge. Una misura dei tassi d’interesse reali dimostra che, anche dopo essere stata rettificata per l’assenza di pressioni sui prezzi, i rendimenti sono comunque decisamente bassi.
Quattro elementi che compongono una bolla
Le bolle non si definiscono tali solo per effetto delle valutazioni. Ci sono altri elementi, presenti in qualsiasi bolla, che vanno oltre le deviazioni rispetto alla norma di lungo termine. Ne prendiamo in considerazione quattro che, in una certa misura, tendono ad essere presenti nei contesti di mercato speculativi. 1. Una forte motivazione Ogni bolla ha una sua motivazione sottostante. Intuizione e logica consentono agli investitori di puntare su un particolare mercato o una determinata tendenza, ma il loro entusiasmo finisce per eccedere e andare fuori controllo. La bolla delle dotcom alla fine degli anni Novanta è un esempio di come una situazione di per sé perfettamente chiara può finire male. Allora, proprio come oggi, circolava una forte fiducia nella capacità della tecnologia di rivoluzionare praticamente ogni aspetto della società. Molte aziende avrebbero trasformato le regole stesse del gioco e conseguito profitti eccezionali. Ma gli investitori non hanno operato discriminazioni e non hanno saputo distinguere tra le società a valore aggiunto (Cisco, Amazon) e gli impostori (Pets.com). La motivazione sottostante non ha mai vacillato, piuttosto ha offerto agli investitori una scusa per pagare prezzi esorbitanti per tutte le società della categoria. Attualmente i tassi d’interesse sono bassi per una ragione molto semplice: crescita e inflazione sono basse a loro volta e probabilmente resteranno tali. Il PIL e l’inflazione globali manifestano da lungo tempo una forte correlazione con i tassi d’interesse. Il ciclo attuale non fa differenza e ben si adatta all’istinto degli investitori secondo cui i tassi dovrebbero essere bassi. Fin qui, tutto torna, ma non significa affatto che anche i rendimenti debbano essere così esigui. 2. Il fattore “questa volta è diverso” Le sopravvalutazioni sono un fenomeno comune nei mercati, ma possono essere considerate una seccatura a cui non dare troppa importanza se si è convinti di essere in prossimità di una svolta epocale. I confronti con i dati storici diventano irrilevanti se la storia è sul punto di essere riscritta e se gli investitori si convincono del fatto che le condizioni correnti sono eccezionali e destinate a durare a lungo. La bolla immobiliare che ha portato allo scoppio della crisi finanziaria nel 2007-2008 si è generata sulla scorta di innovazioni nel campo dei mutui ipotecari che rendevano più accessibile l’acquisto di case a un maggior numero di persone, come mai prima di allora. Allo stesso modo, gli investitori sono convinti che le odierne condizioni favorevoli al mercato obbligazionario non finiranno mai. Dalla crisi del 2007-2008, i paesi sviluppati hanno vissuto uno dei periodi più lunghi di crescita debole ma comunque positiva. Le banche centrali hanno reagito in maniera aggressiva, facendo ricorso a strumenti non sperimentati prima, come il quantitative easing, per spingere i tassi d’interesse in territorio negativo. Questa volta è diverso? Sì, lo è. Per cominciare, i tassi di riferimento sono pari o prossimi a zero in molti mercati, tuttavia questa circostanza non ha minimamente incoraggiato le aspettative in materia di inflazione e crescita. In molti si sono quindi convertiti alla tesi della “stagnazione di lungo periodo”. Il presupposto è che, se le autorità hanno le mani legate da tassi quasi nulli, potrebbero non essere in grado di portarli su livelli abbastanza bassi da stimolare la domanda, soprattutto se l’inflazione e i corrispondenti tassi di rendimento non sono sufficientemente ridotti. E se nei prossimi trimestri dovessero crescere le pressioni recessionistiche, le banche centrali avranno visto trascorrere un intero ciclo economico senza aver mai avuto la possibilità di aumentare in misura significativa il costo del denaro. Oneri debitori senza precedenti sono un altro aspetto per cui “questa volta è diverso”. In teoria, costi di finanziamento artificialmente bassi dovrebbero provocare una crescita esplosiva del credito nei settori privati dell’economia. Aziende e consumatori dovrebbero essere propensi a indebitarsi, visto che i tassi sono convenienti, per poi investire i proventi in qualcosa di produttivo. Ma le società, penalizzate dalla capacità inutilizzata e da una produttività difficile, sono riluttanti a contrarre prestiti. I consumatori, dal canto loro, hanno chiuso il ciclo precedente con un debito così elevato che oggi, qualunque sia il prezzo, sembrano indisposti ad assumere nuovi debiti o incapaci di farlo. Le autorità non hanno altra scelta se non quella di mantenere i costi di servizio del debito quanto più convenienti possibile. L’elenco di differenze rilevanti è lungo. Fattori demografici stanno alterando le abitudini di consumo, la globalizzazione ha provocato un’ondata disinflazionistica, la produttività langue e le disuguaglianze di reddito sembrano frenare la propensione al consumo delle masse. Infine, il paradosso della parsimonia sembra essere più attuale che mai. I tassi d’interesse ridotti dovrebbero incoraggiare le persone a spendere, stimolando la domanda in economie deboli. Eppure, in assenza di miglioramenti del proprio potere di acquisto, molti consumatori reagiscono aumentando il tasso di risparmio, invece che diminuirlo, per compensare la scarsità di resa degli investimenti. La politica monetaria ha quasi esaurito le frecce al suo arco, lasciando le banche centrali con un margine ridotto di manovra per innalzare i tassi. È perfettamente comprensibile che i mercati obbligazionari abbiano risposto scontando una mancanza di crescita e inflazione nel breve termine. Tuttavia, il mercato ha fatto molto più di questo, presumendo che non ci saranno pressioni nel lungo termine. Il grafico sottostante mostra il livello atteso dei rendimenti reali quinquennali tra cinque anni. Le aspettative in materia di inflazione e rendimenti obbligazionari sono crollate in tutto il mondo. Gli investitori nel reddito fisso sono giunti a credere che questa volta sarà diverso, traendo fiducia dal percepito perdurare di questi fattori. 3. La “mano visibile” Il terzo elemento che contribuisce alla formazione di una bolla è la cosiddetta “mano visibile”, una tendenza all’acquisto che si dimostra potente, è visibile a tutti e che presuppone una fiducia elevata da parte degli investitori nella persistenza del trend. Nell’odierna bolla obbligazionaria, sono le banche centrali a svolgere il ruolo di mano visibile che si manifesta ogni giorno sotto forma di quantitative easing. Gli istituti centrali sono acquirenti insensibili ai prezzi. Acquistano titoli di Stato per un valore di miliardi nel tentativo di stimolare le economie globali, spingendo artificialmente al rialzo i prezzi e al ribasso i rendimenti. La Bank of Japan, ad esempio, è impegnata ad acquistare oltre USD 700 miliardi di obbligazioni sovrane giapponesi ogni anno. Le banche centrali sono come un elefante in una cristalleria: distorcono i prezzi e inducono gli altri operatori di mercato a contemplare con circospezione l’idea di muoversi in controtendenza, anche a prezzi apparentemente privi di senso. La natura fortemente pubblica di questi acquisti su vasta scala induce a credere che domani ci sarà sempre qualcuno disposto a comprare a prezzi ancora più alti e che eventuali correzioni saranno comunque contenute. 4. La “mano invisibile” Infine, c’è una mano invisibile che spesso si adopera per spingere i prezzi al rialzo. Questi flussi sono i più difficili da individuare e ancora più difficili da interpretare, ma sembrano venire ripetutamente in aiuto dei mercati e incoraggiare la compiacenza degli investitori. La globalizzazione ha rafforzato notevolmente l’influenza esercitata dai flussi di capitale internazionali. La liquidità è un fattore globale e quella in eccesso scandaglia il mondo intero in cerca di mercati che offrono rendimenti interessanti. Questo ha consentito alle regioni dotate di un surplus di risparmi di esportare capitali. Rientrano in questa categoria anche gli investitori che non hanno molte alternative all’
acquisto di obbligazioni, anche se farlo agli attuali rendimenti irrisori, è un modo più che certo di perdere denaro in termini nominali. Cina e Giappone hanno entrambi avuto una significativa influenza al ribasso sui tassi globali. I deflussi di capitali dalla Cina hanno esercitato ingenti pressioni sui tassi reali globali e sul cosiddetto premio a termine, ossia l’extra-rendimento che si ottiene dilazionando la scadenza lungo la curva dei rendimenti. Un eccesso di risparmio, il rallentamento degli investimenti societari e i timori per la potenziale svalutazione dello yuan hanno contribuito a incoraggiare la fuoriuscita di capitali verso l’estero. Analogamente, mentre la Bank of Japan acquista obbligazioni da altri detentori, i proventi ricevuti dai venditori si sono diretti verso mercati esteri che offrono guadagni maggiori, comprimendo ulteriormente i rendimenti globali. Lo stesso si può dire a proposito della BCE. I fondi pensione e le compagnie assicurative necessitano di un reddito certo per mantenere gli impegni presi con risparmiatori e sottoscrittori di polizze. Molti hanno passività che superano la duration e la scadenza delle loro attività. Il calo dei rendimenti aggrava questo squilibrio, facendo insorgere in molti di questi operatori l’esigenza impellente di aumentare la duration al diminuire dei rendimenti. Altre istituzioni finanziarie, come le banche, sono costrette dalle normative ad acquistare un maggior volume di asset sicuri. Complessivamente, queste potenti forze hanno esacerbato il comportamento pro-ciclico di altri investitori.
Sforzo e fatica
Le valutazioni dei titoli di Stato non sono allettanti e in molti casi si attestano su livelli tra i più elevati nella storia. Da tempo i mercati sono andati ben oltre la semplice prassi di scontare una congiuntura con basso grado di inflazione e di crescita. Ormai scontano un contesto permanente di crescita e inflazione basse. Le valutazioni però sono solo un aspetto del problema. I numerosi indicatori che tipicamente preannunciano una bolla sono anch’essi tutti presenti, come sintetizzato di seguito. Nel frattempo, i mercati restano calmi, temendo appena che i rischi siano elevati e promuovendo così le condizioni che di norma precedono un’inversione di tendenza.
Limiti al calo dei rendimenti
Fino a che punto possono diminuire i rendimenti? Per anni, gli investitori in Europa e negli Stati Uniti hanno anticipato un rialzo dei tassi d’interesse, che però non è mai arrivato. Abbiamo invece assistito a una serie di shock deflazionistici globali. Non possiamo escludere che i rendimenti scendano ancora. L’incertezza geopolitica resta elevata. Le banche centrali potrebbero aumentare gli acquisti di obbligazioni e/o tagliare ulteriormente i tassi nel tentativo di risollevare le prospettive di crescita. Le crescenti paure di una recessione potrebbero ritardare l’avvio di un inasprimento monetario. Tuttavia, numerosi fattori segnalano che siamo ormai giunti alla fine dei giochi. In primo luogo, i tassi di riferimento a breve termine si sono per lo più assestati nell’intervallo più basso. Sebbene possa esserci un certo margine per ulteriori tagli minimi dei tassi al di fuori degli Stati Uniti, si tratterà prevalentemente di misure di facciata. I mercati hanno respinto l’idea di tassi fortemente negativi e le autorità rischiano conseguenze inattese qualora decidessero di proseguire su questa strada. I tassi d’interesse negativi comprometto la redditività delle banche e hanno un effetto punitivo sui risparmiatori. Se dovessero inoltrarsi ancora di più in territorio negativo, è probabile che si affacceranno alla ribalta beni rifugio alternativi. Nel caso di piccole e medie transazioni, gli investitori potrebbero semplicemente optare per la liquidità, rallentando così la velocità di circolazione della moneta. I rendimenti a lungo termine possono essere visti come una combinazione tra l’andamento prospettato dei tassi di riferimento a breve più un “premio a termine” che compensa il rischio aggiuntivo di prestare denaro per un tempo più lungo. Perché i tassi scendano sensibilmente, l’input deve venire da una di queste fonti. Ma se escludiamo ulteriori flessioni dei tassi a breve termine, abbiamo già rinunciato a una spinta positiva. A rendere questo ciclo diverso dagli altri interviene il fatto che il premio a termine è già diventato particolarmente esiguo, il che di fatto elimina l’altro potenziale fattore favorevole per le obbligazioni. È questa concomitanza a suggerirci che il rally è ormai giunto alle battute finali, a meno che non sia imminente una massiccia ondata deflazionistica.
Quando scoppierà la bolla?
Per gli investitori, la domanda da un milione (o da un trilione?) di dollari è: quando potrebbe scoppiare la bolla obbligazionaria? Un vecchio adagio in voga tra gli economisti vuole che si debba tentare di prevedere l’entità di un fenomeno oppure i suoi tempi, mai entrambi allo stesso tempo. Pronosticare la fine di una bolla è in realtà pericoloso. Gli errori sono per definizione parte del puzzle. L’entità della sopravvalutazione non è dunque molto affidabile come segnale anticipatore di un punto d’inversione, poiché oltre alla sopravvalutazione serve la compresenza di un fattore catalizzante. E spesso quest’ultimo giunge da una fonte inaspettata. Purtroppo, nel contesto odierno così peculiare, gli indicatori tradizionali non offrono molti indizi validi. Il PIL e l’inflazione, entrambi tradizionalmente legati ai rendimenti obbligazionari, sono ormai sganciati dall’andamento dei mercati a causa delle condizioni eccezionali in cui viviamo. I mercati valutari tendono a manifestare squilibri; se il dollaro dovesse registrare un rapido incremento di valore, questo potrebbe essere un segnale di allarme. Variazioni significative di uno qualsiasi dei “quattro elementi” citati sopra potrebbero sgonfiare la bolla. Ma la storia ci insegna come sia altamente improbabile che il fattore catalizzante sia rappresentato da un cambiamento della motivazione sottostante. Crescita bassa e inflazione modesta probabilmente persisteranno. La volatilità macroeconomica permane su livelli ridotti. Variazioni lievi del PIL e dell’inflazione non hanno grandi probabilità di generare l’effetto catalizzante, sebbene l’esperienza ci dice anche che questo non impedirà ai mercati di esaminare ossessivamente qualsiasi nuovo dato come se dovesse fornire l’indizio risolutivo. È più probabile che un fattore catalizzante tragga origine altrove. Le autorità potrebbero cambiare le regole del gioco. Le banche centrali potrebbero accettare il fatto che ulteriori tagli dei tassi difficilmente sortiranno l’effetto sperato. Piuttosto, le autorità potrebbero rivolgere la loro attenzione alla politica di bilancio, potenziando la spesa per le infrastrutture oppure offrendo incentivi fiscali come strumento per stimolare la domanda. Forse la spesa fiscale potrebbe perfino essere finanziata mediante la monetizzazione del debito, una strada che avrebbe il potenziale per cambiare davvero la situazione. Per chi è alla ricerca di indizi, le categorie della mano “visibile” e di quella “invisibile” hanno le maggiori probabilità di fornire risposte. Inoltre, è altamente verosimile che segnali anticipatori della fine del rally obbligazionario giungeranno dall’Asia. Il Giappone si è spinto molto avanti sul fronte della sperimentazione monetaria e sta cercando disperatamente di dare impulso alle aspettative d’inflazione. Le autorità nipponiche potrebbero comunque avere successo, varando misure di forza per conseguire il loro obiettivo inflazionistico o adottando formalmente un target per il livello dei prezzi. L’Europa potrebbe fare qualcosa di simile. Se l’economia cinese dovesse recuperare slancio, anche questo potrebbe essere un fattore catalizzante capace di porre fine al rally obbligazionario. I flussi d’investimento cinesi hanno compresso in misura significativa i rendimenti obbligazionari globali. Una rinnovata accelerazione della Cina innescherebbe un rapido ritiro dei flussi esteri, lasciando i titoli di Stato privi di una fonte fondamentale di domanda. Gli investitori dovrebbero tenere sotto stretta osservazione il tasso di crescita della Cina e il ritmo dei deflussi di capitali. In altre regioni, una politica monetaria meno espansiva da parte della BCE o della Bank of England accentuerebbe notevolmente la correzione. Studiare l’anatomia di una bolla obbligazionaria presenta notevoli difficoltà. C’è un ultimo aspetto che è importante ricordare: le bolle di mercato hanno la tendenza a finire male, tuttavia lo fanno con modalità assai diverse e molto spesso seguendo percorsi inaspettati. Prevedere la fine non è mai facile. Inoltre, a prescindere dal fatto che la bolla stia o meno per scoppiare, ormai dobbiamo riconoscere che i bei tempi sono finiti. Le valutazioni dei titoli di Stato sono semplicemente eccessive e la probabilità di ulteriori catalizzatori positivi è troppo esigua per aspettarsi guadagni apprezzabili da ora in avanti. Nel frattempo, i prodotti con bassa esposizione alle obbligazioni sovrane dei principali paesi sviluppati o con una ridotta sensibilità ai tassi d’interesse dovrebbero continuare a ottenere buone performance. I prodotti con la capacità di effettuare allocazioni aggressive su molteplici settori o con una predilezione per emissioni governative noncore, quali credito, municipal bond e mercati emergenti, dovrebbero dimostrare la maggiore capacità di tenuta nell’universo del reddito fisso, anche se con un grado di volatilità maggiore. Stiamo assistendo alle fasi finali di un rally pluridecennale e la domanda tuttora irrisolta è molto semplice: dobbiamo attendere ancora molto prima che la bolla scoppi o un finale improvviso è già dietro l’angolo? La risposta non è del tutto chiara, ma probabilmente arriverà da fonti inaspettate e sarà fortemente influenzata dalle autorità pubbliche. I segnali di allarme ci sono già.
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