Azioni, nel prossimo decennio vinceranno ancora

A cura di Andrea Delitala, Head of Investment Advisory Pictet AM e Marco Piersimoni, Senior Portfolio Manager di Pictet AM

Gli anni Venti saranno con ogni probabilità caratterizzati da un nuovo paradigma, in cui crescita potenziale e inflazione ‘normale’ sono ridimensionate rispetto al passato. Un mondo inedito in cui le politiche monetarie hanno esaurito il proprio ruolo di stimolo all’economia e a cui potrebbe subentrare una fiscalità espansiva, come auspicato da Mario Draghi e ribadito da Christine Lagarde.

Congiuntura: crescita in frenata e contraddizioni da interpretare

L’andamento dell’attività economica è anemico ma forse, come abbiamo accennato in apertura, questo corrisponde a un nuovo paradigma in cui crescita potenziale e inflazione ‘normale’ sono ridimensionate rispetto al passato.

La lettura del ciclo economico attuale presenta, tuttavia, alcune difficoltà, per via delle contraddizioni che lo caratterizzano: in particolare, il manifatturiero ha un andamento estremamente negativo in contrasto ai servizi che mostrano uno stato di buona salute; il mondo sviluppato tentenna a fronte di Paesi in via di sviluppo che aumentano la propria forza relativa; i consumi appaiono solidi rispetto alle altre componenti della domanda, ovvero investimenti e commercio estero in sensibile decelerazione.

Riteniamo di poter spiegare tali dinamiche come segue:
• le spese in conto capitale (Capex) delle aziende languono o sono in recessione. L’epicentro del problema in questo caso è rintracciabile nel commercio estero e, in particolare, nelle istanze protezionistiche che Donald Trump incarna alla massima potenza con l’approccio “America First” che si traduce in incertezza regolamentare o sui dazi che ha un impatto ovviamente negativo sui parametri del commercio internazionale e sulle scelte di investimento. Nel lungo periodo si osserva in ogni caso un timido recupero degli investimenti in grado di divergere dal calo degli ordini che è l’effetto più grave dell’escalation della guerra commerciale e del calo dell’export complessivo globale.
• I consumi privati sono particolarmente importanti perché rappresentano i tre quarti della domanda e quindi del Pil domestico. La loro solidità dipende da fondamentali supportivi: in particolare la crescita reale dei salari che si mantiene tra l’1 e l’1,5% nonostante i salari nominali abbiano di recente segnato un tasso di crescita sotto il 3%. I tassi reali sono sostenuti da un’inflazione che resta a livelli molto al di sotto del target del 2% e da tassi di disoccupazione sui minimi. Un collasso dei consumi appare improbabile. Il buon andamento dei Salari Reali rappresenta altresì una buona notizia per i mercati finanziari perché non si tradurrà in una compressione degli utili aziendali in quanto la produttività riesce a tenere il passo con essi, lasciando invariata la ripartizione del reddito.

Le regole del nuovo paradigma

Tutto quanto osservato ci porta di nuovo alla constatazione che potremmo essere in nuovo paradigma basato su regole inedite che vale la pena indagare.

Politiche monetarie in stallo – Le condizioni finanziarie appaiono ancora estremamente favorevoli e il 2020 si avvia avendo a disposizione una notevole spinta monetaria. La Fed, che alla fine del 2018 aveva tentato di normalizzare il bilancio e poi di agire al rialzo sui tassi, ha dovuto fare rapidamente marcia indietro osservando che il sistema iniziava a scricchiolare ben prima del punto di arrivo. Le banche necessitano di un livello di riserve libere molto superiore rispetto al passato: una volta emerso questo fattore che non si era correttamente calibrato sono stati necessari nuovi interventi sulla liquidità. Al momento la Fed sta acquistando titoli a breve sul mercato in attesa di avviare una soluzione permanente. Ma un fatto è chiaro: tornare indietro dal quantitative easing (Qe) prolungato è faticoso, per non dire impossibile.

Più o meno contemporaneamente alla Fed, la Bce, che si trovava più indietro nel ciclo monetario, ha ridotto la portata della sua politica espansiva per poi riprenderla con forza ancora maggiore a settembre 2019, quando Mario Draghi ha annunciato un ulteriore Qe da 20 miliardi al mese senza scadenza, avvertendo che si tratta dell’andatura massima sostenibile, una soglia oltre la quale sarebbe necessario allentare le regole di ingaggio, ovvero il capital key (la quota di acquisti per Paese) e la quota di acquisti di singole emissioni (33%) difficilmente intaccabili anche a livello politico. Pertanto, Christine Lagarde dovrà limitarsi alla revisione della funzione di reazione almeno per quest’anno. Le banche centrali nel mondo occidentale saranno a lungo paralizzate avendo esaurito la politica monetaria il proprio compito e la propria efficacia.

Il “whatever it takes” fiscale – La politica fiscale dal canto suo conta su una condizione particolarmente favorevole nel rapporto tra crescita nominale, seppure contenuta, e tassi di interesse complessivamente talmente bassi da configurare una buona sostenibilità del debito pubblico. Nel suo primo speech come governatore della Bce Lagarde è andata caldeggiando l’idea che la politica fiscale non sia necessariamente debito ma possa tradursi anche in riqualificazione delle poste. Dunque, si può indirizzare agli investimenti.

Nel nuovo paradigma in cui ci muoviamo, riteniamo che il prossimo whatever it takes potrebbe essere di tipo fiscale, tenendo a mente in questo passaggio di testimone che il modus operandi della politica fiscale è diametralmente opposto da quello della politica monetaria, sia in termini di processo necessario all’attivazione sia in termini di effetto su economia e mercati. Per prendere decisioni di politica monetaria è sufficiente un tempo molto breve ma l’efficacia si spalma in un periodo di 12-18 mesi e l’impatto immediato sull’economia è pressoché nullo, mentre l’impatto sui mercati può essere rilevante. La politica fiscale ha una gestazione al contrario molto lunga e complessa e potrebbe comportare in Europa persino la revisione del patto di stabilità, ma ha un’efficacia immediata sul Pil o sui consumi.

L’impatto sui mercati: il rendimento delle obbligazioni

In questo nuovo paradigma che abbiamo disegnato, il livello attuale dei tassi di interesse, molto prossimo allo zero, appare strutturale. Se è così le valutazioni finanziarie ne dovranno tenere conto insieme a una serie di fattori secolari, dalla demografia, all’innovazione, alla deglobalizzazione che sono alla base della riduzione strutturale del metabolismo dell’economia e che, insieme agli elementi più ciclici, impattano nei componenti dei ritorni obbligazionari e azionari.

Per quanto attiene al fronte obbligazionario, le previsioni per i tassi di interesse a 10 anni si collocano al 2,3% sul decennale Usa e allo 0,25% sul Bund, con un Total Return medio atteso dell’1,6% all’anno per quanto riguarda il T-Note e una perdita di 0,5% (annuale) per il Bund.

I tassi di interesse strutturalmente bassi, dunque, non rappresentano un’occasione d’oro per le obbligazioni (se si copre il T-Note per il rischio cambio si perde comunque), ma neppure una tragedia. Sono, invece, una buona notizia per l’equity, con un extra rendimento che nello scenario low for long può arrivare anche al 3% e, portando il mercato Usa tra l’8 e il 10%. Cerchiamo di spiegare su cosa si basano queste previsioni.

Perché nello scenario low for long le azioni vincono

Il rendimento atteso delle azioni è influenzato dalle condizioni finanziarie e, in particolare, dai tassi reali e può essere scomposto in due componenti: i dividendi e il rendimento da capitale che, a sua volta, è dato dalla crescita degli utili più la variazione delle valutazioni, ossia quante volte si è disposti a pagare questa crescita degli utili. I dividendi sono una delle poche variabili stazionarie e fruttano intorno al 2% negli Stati Uniti e intorno al 3% in Europa.

L’analisi delle altre due componenti, ovvero crescita degli utili e variazione delle valutazioni, permette, invece, di calcolare il potenziale capital gain tenendo sempre in mente l’ipotesi di tassi di interesse fermi oppure molto bassi nell’orizzonte di previsione. Vediamo i tre elementi una alla volta:
1) crescita degli utili. Una delle congetture nel mercato è che i margini siano sui massimi e pertanto destinati a scendere. Questa tesi appare valida e suffragata dai dati per alcune parti del mercato, ma diventa facilmente confutabile se si guardano i numeri di contabilità nazionale, in base a cui la quota di profitti rispetto al PIL negli ultimi 50 anni si è già ridotta in maniera sensibile. Pertanto, la marginalità delle imprese è già scesa, il che non esclude che possa continuare a farlo, ma rende evidente che non sia vero che siamo su livelli estremamente alti per cui un calo sarebbe pressoché inevitabile.
2) I tassi di interesse influenzano la redditività delle imprese attraverso il canale del costo del credito e impattano sul valore in termini di fattore di sconto. Per descrivere l’andamento di questa variabile abbiamo tentato di isolare il fattore “tassi di interesse” che è tra i quattro che determinano la marginalità dell’impresa. Gli altri sono la pressione fiscale, l’andamento del commercio mondiale e infine la velocità di crociera alla quale si sta viaggiando. In particolare, la redditività subisce un impatto negativo in caso di aumento delle tasse o dei tassi e positivo in caso di aumento del commercio mondiale o di accelerazione della velocità di crociera. Attualmente la redditiva è, in linea con le medie storiche, al 9,7%, ma nello scenario in cui i tassi restino bassi nel lungo periodo, la marginalità appare in possibile miglioramento, pur non essendo questa revisione scontata dal mercato. Insomma, i margini non solo non sono a rischio ma sono supportati dall’eventuale validità dello scenario low for long.
3) Il terzo fattore è la variazione delle valutazioni. Il rendimento atteso delle azioni è frutto del rendimento corrente del capital gain e una parte considerevole del capital gain dipende da quante volte si è disposti a pagare gli utili. Osservando la dinamica di questi ultimi nel biennio appena trascorso e quella dei tassi reali appare evidente dai livelli dei Price/Earnings che l’andamento delle valutazioni dipenda appunto dei tassi di interesse reali. Il premio per il rischio si colloca su livelli abbastanza generosi e potrebbe ritracciare per riagganciare la media storica, ma può altresì aumentare per una discesa dei P/E o per una salita dei tassi reali che si normalizzano intorno all’1,5% con un aumento del rischio sul fronte azionario.

In conclusione, è possibile ipotizzare tre scenari sui tassi di interesse con le relative conseguenze sui rendimenti attesi dei mercati azionari.
La normalizzazione dei tassi reali (probabilità 40%) intorno all’1,5%: l’aggiustamento del premio per il rischio avviene appunto a scapito dei tassi, con valutazioni azionarie stabili attorno ai livelli attuali, pertanto con nessun contributo di re/de-rating. In questa ipotesi, la normalizzazione dei premi per il rischio (misurata dalla combinazione tra tassi reali e variazione delle valutazioni annuali) implicherebbe una contrazione delle valutazioni di 1 o 2 punti percentuali. La normalizzazione dei tassi si trasmette in una perdita tra il 2 o il 3% sul rendimento atteso delle azioni.
L’alternativa è lo scenario low for long (probabilità 40%) in cui i tassi di interesse reali stazionano tra lo 0 e lo 0,5%. In questo caso la normalizzazione delle valutazioni potrebbe avvenire per effetto della discesa degli earnings yield delle azioni. Questo implicherebbe un aumento del P/E in presenza di redditività costante e si sostanzierebbe in un rerating. Con i tassi reali intorno allo zero, un premio al rischio normalizzato in termini di aumento delle valutazioni azionarie vale circa 3 punti per anno. Ma questo livello di tassi ha un’implicazione importante sul rendimento atteso delle azioni perché offre un extra rendimento in conto capitale tra l’1 e il 3% annuo.
Infine, un terzo scenario è quello in cui si considera una recessione (probabilità 20%): in questo caso i tassi scendono ma le valutazioni non migliorano.

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