Brexit: quali scenari si prospettano?

A cura di Alessandro Balsotti, strategist Jci Capital

L’antefatto: speranza da Bruxelles. Lunedì sera dal Belgio era arrivata una ventata di ottimismo. Con un inatteso blitz Theresa May si era recata a Bruxelles. Il Primo Ministro aveva ottenuto delle nuove rassicurazioni che la famosa ‘backstop irlandese’ non sarebbe stata usata dall’Unione Europea come un sistema per mantenere indefinitamente il Regno Unito all’interno dell’Unione Doganale del Mercato Unico contro la sua volontà in caso non si riuscisse a pervenire nei tempi previsti (attualmente entro fine 2020) ad accordi ‘alternativi’. Come è noto questa backstop è necessaria per evitare di rompere uno dei principi più intoccabili dell’assetto attuale, ovvero l’assenza di una frontiera vera e propria tra Irlanda e Irlanda del Nord, nel rispetto degli accordi del Good Friday che nel 1998 hanno sancito la fine dell’attività terroristica e bellica a Belfast e dintorni.

Mi esimo dall’affrontare il legalese dei complessi accordi in questione ed esprimermi sul merito di quanto queste presunte concessioni siano più o meno cosmetiche e non sostanziali. Avrebbero comunque potuto rappresentare l’occasione per i gruppi politici al governo recalcitranti di fronte all’accordo-May (gli Unionisti del DUP e gli oltranzisti conservatori dell’European Research Group) per cambiare posizione senza perdere troppo la faccia.

Quando però il Procuratore Generale Geoffrey Cox, il primo consulente su questioni legali così complesse per governo e maggioranza parlamentare, si è espresso in termini tiepidi sulle novità, costretto a sostenere che i rischi di rimanere intrappolati contro la propria volontà in una Unione Doganale erano “ridotti ma non eliminati” dalle nuove concessioni escogitate a Bruxelles, il re (Theresa May) si è ritrovato nudo e ancora ben lontano dall’ottenere la maggioranza necessaria per la sua ratifica.

La sconfitta. Theresa May ha visto il suo accordo rigettato per la seconda volta (il primo voto era stato il 15 gennaio). Il margine della sconfitta è diminuito, 149 voti (391 a 242) dai 230 della precedente occasione (432 a 202), uno scarto sostanzialmente dovuto a un minore voto contrario nei ranghi conservatori (75 hanno votato contro vs 118 a gennaio, tra i laburisti solo un voto favorevole si è aggiunto, da 3 a 4). Un miglioramento che comunque non può essere festeggiato. Nonostante il Primo Ministro sia apparso provato, stanco e quasi senza voce nell’intervento parlamentare a valle del voto, chi prevedeva una sua rinuncia a continuare a lottare rassegnando le dimissioni e/o chiamando elezioni anticipate è rimasto deluso. Theresa May sembra voler tirare dritto per la sua strada anche se ormai i margini di manovra per cercare di far ratificare il suo accordo appaiono definitivamente esauriti.

 

Gli altri voti: no-deal e rinvio. Oggi il Parlamento voterà per decidere se uscire (volontariamente e non per errore) dall’Europa senza un accordo il 29 marzo. Un voto che è impensabile possa passare anche se sarà interessante vedere quanti nel partito conservatore, i cui membri la May ha lasciato liberi di scegliere senza indicare un’opzione preferita, indicheranno che pur di evitare il rischio di un nuovo referendum, di elezioni anticipate o di un’uscita troppo ‘soft’, sarebbero disposti ad affrontare la temuta ‘no-deal’ Brexit.

Molto più indicativo sarà il voto di domani (salvo sorprese e anticipi) sulla scelta se dare o meno un’indicazione (vincolante) all’esecutivo di fare richiesta a Bruxelles per un estensione della scadenza. È molto probabile che una simile mozione sarà sostenuta dalla maggioranza.

Quello che non sappiamo è che forma questa richiesta prenderà: a) un rinvio breve (più probabile) o lungo; b) quale sarà il piano d’azione per il quale si chiede il rinvio. Anche perché finora il Primo Ministro non ha dato alcun segnale di voler utilizzare una serie di ‘votazioni indicative’ che aiuterebbero il Parlamento a scremare i possibili sviluppi alternativi verso una soluzione: a) una forma diversa di Brexit, da qualificare con una modifica significativa della parte, minore e vaga, con cui il Withdrawal Agreement descrive il tipo di accordo che si vorrà impostare per il futuro, la cosiddetta ‘dichiarazione politica sugli assetti futuri’, con ogni probabilità una forma più ‘soft’ di Brexit in grado di raccogliere voti anche nell’opposizione laburista; b) un’ulteriore negoziazione in grado di ottenere nuove concessioni sull’accordo, in particolare sulla ‘backstop irlandese’, già rigettato due volte da Westminster (anche se l’Europa è stata molto chiara sull’impossibilità/mancanza di volontà nel fornire nuove concessioni), c) un’indicazione di volere/potere ricorrere grazie al rinvio a elezioni anticipate e/o a un nuovo referendum nel caso non riesca a formare una maggioranza per un accordo che possa essere gradito all’Unione Europea.

La risposta europea. Se (probabile) e quando l’esecutivo inglese si presenterà a Bruxelles con un’investitura formale del proprio Parlamento a richiedere un rinvio della scadenza, sarà necessario un consenso unanime da parte dei 27 paesi (che erano 28). Non si vedono ostacoli insuperabili alla formazione di una simile unanimità (nonostante gli sforzi lobbistici degli Hard-Brexiteers nei confronti della Polonia per cercare di ostacolare un possibile rinvio) ma l’indicazione da parte dell’Europa è stata finora molto chiara: qualsiasi estensione richiederà una strategia “alternativa e credibile” da parte del Regno Unito.

 

Scenari. La situazione rimane molto complicata ma lo scenario base di riferimento resta quello di un esito benigno: lo sfruttamento di un rinvio di 3 mesi per lavorare a un accordo differente, presumibilmente più ‘soft’ (Norway+ o Unione Doganale permanente) in grado di raccogliere una maggioranza bipartisan in Parlamento. Il grosso ostacolo a una soluzione di questo tipo resta la potenziale esplosività politica di uno sviluppo che potrebbe spaccare irrimediabilmente in due il partito conservatore. Scenari ben più problematici, quantomeno nel breve periodo, sono quelli carichi di incertezza che verrebbero innescati da elezioni anticipate (richieste direttamente da Theresa May o necessarie per la sua detronizzazione in seguito a un voto di sfiducia) o da un referendum.

Un ricorso alle urne resta a mio avviso una possibilità concreta se lo stallo dovesse continuare. Si possono organizzare in meno di due mesi e probabilmente l’Europa sarebbe costretta a concedere il rinvio per un evento simile. Il pericolo che il mercato percepirebbe è evidente. Una vittoria di Corbyn e i laburisti arriverebbe su un manifesto chiaramente poco favorevole al mondo imprenditoriale-finanziario-economico. Ma anche un Parlamento spaccato come e più di quello attuale non potrebbe essere una buona notizia in un momento storico così delicato.

Una vittoria più netta dei conservatori, dopo una campagna che verrebbe probabilmente condotta sulla richiesta si supporto all’accordo May (probabilmente con una backstop migliorata per tenere insieme le correnti del partito) vs un nuovo referendum (potrebbe essere la scelta di campagna elettorale per i laburisti), porterebbe a rinnovate possibilità di un’uscita ordinata, sulla falsariga di quella che, senza successo, il Primo Ministro sta cercando di ottenere da mesi. Per quanto riguarda un nuovo referendum continuo a pensare che non ci possa essere l’appetito politico e/o la maggioranza nell’attuale Parlamento per proporre una soluzione così complicata (quale quesito?) allo stato attuale. L’unica strada sarebbe quella di fare campagna per una nuova consultazione popolare nel caso di elezioni anticipate e di vincere elezioni su un simile programma.

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