Business as usual

a cura di Claudio Barberis, responsabile asset allocation di MoneyFarm SIM

Uno degli errori comportamentali tipici degli investitori consiste nel dar maggiore peso emotivo alle perdite rispetto al peso dato ai profitti. Lo si vede ad esempio quando un privato ha lunga memoria di una perdita fatta con un investimento rispetto al ricordo di un profitto di pari entità fatto con un’altra posizione.

Gli investitori istituzionali non sono da meno: da oltre quattro anni i mercati di tutto il mondo salgono, segnando in alcuni casi nuovi massimi, con performances eccellenti per i portafogli: ma pochi mesi di performances negative stanno già creando non poco nervosismo.

La volatilità per lo meno risveglia le menti e sta costringendo molti ad analizzare le ragioni di questo nervosismo: crisi greca, rallentamento dei paesi emergenti, ripresa ancora debole in Eurozona, inflazione sempre vicina ai minimi storici, atteso rialzo dei tassi da parte della Fed, mancanza di liquidità sui mercati obbligazionari, tensioni in Est-Europa…

L’Economist ha parlato recentemente di un’economia globale non ancora in grado di affrontare un’eventuale nuova recessione, spiegando che tutte le armi (politica fiscale e monetaria) sono già utilizzate a pieno regime per uscire dalla recessione precedente.

Si respira quindi un clima di fragilità a cui si aggiungono valutazioni in alcuni casi elevate. I mercati azionari trattano su multipli in media storica (Europa) o superiori alla media (USA) sulle piazze principali. Le obbligazioni dei paesi a basso rischio di credito offrono rendimenti reali negativi o quasi. Gli spreads pagati dai governativi più rischiosi o dalle obbligazioni societarie sono anch’essi su minimi storici. Per quanto concerne le valute, il gran movimento dell’Euro/Dollaro che ha permesso agli investitori basati in Eurozona di beneficiare in pochi mesi di apprezzamenti di oltre il 20% sembra aver fatto il suo corso, almeno per ora.

Siamo quindi in quella situazione in cui i mercati sono generosamente prezzati e gli investitori timorosi che possa succedere qualcosa di serio. Il ricordo della Grande Crisi Finanziaria e dell’Eurocrisi è vivo nella mente degli investitori che tuttora contano più sulle parole dei banchieri centrali che su quelle degli amministratori delle società quotate o sui dati macroeconomici in Eurozona e Stati Uniti.

La ferita della Grande Crisi Finanziaria è ancora aperta e c’è sempre il presentimento che un calo dei mercati possa far ricadere in un circolo vizioso prezzi, valutazioni e sentiment. Va detto però che alcuni dei timori maggiori sono noti da anni a chi investe: il rialzo dei tassi Fed è uno degli eventi più annunciati della storia dell’umanità.

È un momento delicato, perché non si sa mai quanto il rialzo sia effettivamente messo in conto da consumatori, imprese e investitori di tutto il mondo; ma si tratta comunque di un fatto positivo, dell’uscita da quasi un decennio di eccezionalità per i mercati.

Non si può parlare di “normalizzazione” dei tassi e interpretarla in modo univocamente negativo. Molti citano con timore il 1994, anno in cui un rialzo non pienamente atteso dei tassi americani provocò volatilità e tensioni soprattutto sui mercati emergenti. Ma appena si estende l’intervallo di analisi, si vede che la volatilità del 1994 fu un episodio di breve durata.

La vicenda greca è la coda di una lunga e travagliata crisi in Eurozona, può fomentare i peggiori incubi per molti operatori, ma anche in questo caso si tratta di un rischio noto da mesi e in parte arginato dalla Bce e dalle istituzioni politiche europee. Secondo qualcuno, il modo in cui verrà definita la situazione greca potrà chiarire alcuni punti non previsti e quindi oscuri del progetto europeo, ossia chiarire come possa avvenire un default governativo all’interno della moneta unica, o l’uscita dalla moneta unica. La soluzione della crisi greca, anche se laboriosa, potrà dare un’idea definitiva di quanto i leaders europei siano disposti a spendere per l’Eurozona, così come il Quantitative Easing di Draghi ha chiarito una volta per tutte che, pur in extremis, la Bce è disposta a fare qualunque cosa serva per salvare la moneta unica.

Le tensioni in Est-Europa sono presenti da molto tempo e la ripresa dell’Eurozona, per quanto appena agli inizi, non deve per forza tramutarsi in un falso segnale: riforme strutturali sono state fatte da quasi tutti i paesi periferici e c’è chi parla, ad esempio, di rinascita italiana.

Il rallentamento dei paesi emergenti, in particolare Brasile e Cina, resta il tema meno dibattuto, forse perché non presenta caratteristiche di emergenza ed è in parte mitigato da interventi delle banche centrali e dei governi locali. Il calo delle valute dei paesi emergenti rispetto al dollaro riflette una bilancia commerciale meno positiva rispetto al passato per alcuni paesi in questa fase di “global rebalancing”. Il calo dei prezzi delle materie prime sta mettendo in difficoltà altri paesi esportatori. Gli investimenti di portafoglio da parte di fondi dei paesi sviluppati in cerca di rendimento, che hanno accumulato in questi anni titoli societari e sovrani dei paesi emergenti potranno ridursi man mano che la Fed normalizzerà i tassi, cosicché la debolezza di questi mercati potrebbe durare ancora.

Dubbi sulla liquidità dei mercati obbligazionari sono legittimi: le nuove regolamentazioni hanno ridotto la possibilità per le banche di detenere posizioni per scopi di trading o market making, per cui non è detto che ci sia sempre un compratore nel caso di forti vendite.

Anni di rally dei mercati hanno portato le valutazioni su livelli sostenuti, è normale che gli investitori siano nervosi e propensi a leggere in senso oltremodo negativo il contesto di mercato. Un po’ di volatilità sui mercati è quindi comprensibile e per certi versi ben-accetta, come ha ammesso lo stesso Draghi. Siamo comunque in un contesto di ripresa globale e di global rebalancing come non si vedeva da oltre un decennio. La volatilità resterà sui mercati nei prossimi mesi, ma non necessariamente sarà l’inizio di qualcosa serio.

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