Cerved, rapporto Pmi: crescita ferma, ma 5mila aziende eccellenti potrebbero aprirsi agli istituzionali

Le PMI italiane hanno superato la crisi e recuperato livelli di redditività elevati, continuando a rafforzare gli indici che sintetizzano la sostenibilità dei loro debiti finanziari, oggi ben più equilibrati rispetto a un decennio fa. Grazie alle nuove aperture e al calo delle chiusure, si è finalmente arginata l’emorragia che aveva decimato il sistema imprenditoriale, composto da oltre 150.000 piccole e medie imprese, più che nel 2007. Neanche a dirlo, a guidare la ripresa sono state le PMI con maggiore vocazione internazionale.
Questo nel 2017, anno fotografato in dettaglio dal Rapporto Cerved PMI 2018 presentato oggi in Borsa Italiana, che analizzando i più recenti bilanci depositati e incrociandone le informazioni con il ricco database di Cerved dà conto dello stato di salute economico-finanziario delle piccole e medie imprese italiane.
Purtroppo, la crescita sembra ora essersi fermata. Diversi indicatori monitorati nel Rapporto durante la prima metà del 2018 suggerirebbero che la ripresa delle PMI abbia raggiunto un suo picco positivo per poi rallentare o invertire la tendenza: ad esempio, nei primi sei mesi sono nate poche società di capitali, appena l’1,3% in più contro l’8,2% dell’anno scorso, mentre sono aumentate le liquidazioni volontarie (1.374, +3,1% su base annua). Quanto alle abitudini di pagamento, già dalla fine del 2017 sono tornati ad aumentare le fatture non saldate nei termini pattuiti e i giorni medi di ritardo (10,8 a giugno), nonché i ritardi gravi, superiori a due mesi, che in genere sfociano in mancati pagamenti o default.
“Questo rallentamento è preoccupante soprattutto alla luce dello scenario macroeconomico, caratterizzato da una frenata della congiuntura internazionale e dalla crescente sfiducia dei mercati sui conti pubblici italiani – commenta Valerio Momoni, Direttore Marketing e Business development di Cerved Group -. Le nostre analisi mostrano che aumenti prolungati degli spread hanno chiare conseguenze negative sui conti delle imprese, in termini di freno agli investimenti, redditività e rischio di default”.

Se gli spread crescessero a lungo, infatti, si potrebbero avere un aumento dei tassi di interesse e l’interruzione del ciclo positivo degli investimenti, con pesanti conseguenze sulle PMI, relativamente sia alla redditività che al rischio. Una simulazione condotta sui dati di bilancio indica che – a parità di tutte le altre condizioni – a ogni aumento di 100 punti base del costo del debito delle PMI corrisponde un calo del ROE di circa un punto percentuale. Gli effetti sulle PMI non sarebbero omogenei: un aumento dei tassi di interesse peserebbe in misura maggiore sulle piccole società, per cui si stima un effetto sul ROE di 5,7 punti percentuali in caso di crescita di 500 basis points.
Ma le PMI restano il cuore pulsante della nostra economia. E su di loro, in particolare sulle moltissime che costituiscono vere e proprie eccellenze, bisogna puntare e investire. Da qui il capitolo monografico di questa quinta edizione del Rapporto, dedicato alle aziende, in molti casi a carattere familiare, che potrebbero crescere e creare ricchezza per il Paese con l’ingresso di capitale da parte di investitori istituzionali.
Grazie ad algoritmi di big data applicati all’enorme business network che Cerved ha mappato in Graph4You, è stato ricostruito il ruolo delle famiglie nelle strutture proprietarie e di governo delle imprese e sono state individuate più di 5.000 società con performance finanziarie eccellenti che potrebbero avvantaggiarsi di iniezioni di equity, tramite la quotazione in Borsa o l’ingresso di fondi di investimento.
“Il bacino potenziale di queste società è molto ampio e il contributo alla crescita dell’economia potrebbe essere consistente – continua Valerio Momoni -. Occorre però vincere una riluttanza storica e renderle più propense ad aprire il capitale a investitori e manager esterni, che le aiuterebbero a fare un salto dimensionale. Servizi di marketing intelligence evoluti possono aiutare gli investitori istituzionali a scovare queste eccellenze, che al momento non sono affatto nei loro radar, e identificare quelle più propense al cambiamento, magari perché vicine al ricambio generazionale”.
Cerved ha stimato – come effetto massimo e raggiungibile nel medio periodo – che se le 4.386 PMI interessanti per un fondo di private equity fossero acquisite e raggiungessero una dimensione media paragonabile a quella delle società già in portafoglio, potrebbero accrescere il loro valore aggiunto di 40 miliardi euro; allo stesso modo, le 699 società quotabili potrebbero aumentarlo di 21 miliardi. Complessivamente, si parla di quasi 4 punti percentuali sul Pil.
“Sono stime basate su ipotesi molto forti, in particolare in termini di impatto della partecipazione dei fondi e della quotazione sulla crescita dell’impresa – conclude il manager di Cerved Group -. Pur con queste cautele, indicano un potenziale di crescita che sarebbe importante sfruttare”.
La fotografia del 2017: accelera il miglioramento dei conti economici e si arrestano le chiusure
L’analisi riguarda 148.531 società di capitale non finanziarie con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 250 e un fatturato che va dai 2 e ai 50 milioni di euro: 123.495 sono piccole imprese e 25.036 sono medie, occupano oltre 4 milioni di addetti e rappresentano il 24% delle aziende che hanno depositato un bilancio valido. Hanno prodotto un giro d’affari di 886 miliardi di euro, un valore aggiunto di 212 (il 12,6% del Pil) e contratto debiti finanziari per 223 miliardi. Rispetto a tutte le società non finanziarie, pesano per il 38% in termini di fatturato e per il 40% in quelli di valore aggiunto.
Il miglioramento dei conti economici delle PMI, che dura dal 2012, ha subito un’accelerazione nel 2017: i ricavi sono aumentati a tassi più che doppi rispetto all’anno precedente (+5,3%), con risultati particolarmente brillanti per chi opera nei settori industriali (+5,7%). Il valore aggiunto è cresciuto del 4,5%, il cashflow ha superato i livelli pre-crisi e si è innalzata la redditività operativa (ROA) al 4,9%, un indice di sette decimi maggiore rispetto a quello delle grandi imprese.
Non va però dimenticato che nel 2017 le PMI hanno continuato a beneficiare della politica monetaria espansiva della BCE, con minori costi per il servizio del debito: il rapporto tra oneri e debiti finanziari è sceso per il terzo anno consecutivo (dal 3,9 al 3,5%) e ciò ha contribuito ad aumentare la redditività netta (ROE) passata dal 10,9% del 2016 all’11,2% del 2017, e addirittura al 13,6% per chi opera nell’industria.
Se dunque la redditività delle PMI è ripresa, ciò è dovuto certamente al ritorno alla crescita dell’economia italiana, ma anche al dividendo dei programmi di quantitative easing messi in campo dalla BCE e alla prolungata fase di bassi tassi di interesse: rispetto al 2012, quando i tassi avevano risentito dell’impennata degli spread dei titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi, le imprese italiane pagano 5,1 miliardi in meno di oneri finanziari (-41%), che incidono per 2,3 punti in termini di ROE. La metà di questo beneficio (1,1 punti) si deve al minor costo del denaro, il resto alla riduzione dei debiti finanziari nei bilanci delle PMI.

Sono state le PMI con maggiore vocazione internazionale a guidare la ripresa: tra il 2010 e il 2017 hanno fatto registrare una crescita del valore aggiunto di 22 punti percentuali (17 in più rispetto alle società chiuse ai mercati esteri) e migliori performance quanto a produttività, capacità di generare cassa e redditività.
Infine, si è arrestata l’emorragia che al culmine della recessione aveva decimato il sistema italiano delle PMI, passate dalle 150 mila del 2007 alle 136 mila del 2014 (-10%). Il numero è tornato a risalire nel 2016 (+8 mila unità, +5,8% sul 2015) e nel 2017 (+3 mila, +2,9%), attestandosi a 152 mila unità e superando così i livelli pre-crisi. Due le dinamiche che hanno sostenuto la crescita: da un lato, la nascita di nuove società di capitali, osservata a partire dall’introduzione delle Srl semplificate, accompagnata da un netto aumento del numero di newco in grado di radicarsi sul mercato e superare la soglia di 10 addetti e 2 milioni di fatturato necessaria per entrare nel perimetro delle PMI; dall’altra, la forte riduzione di aziende uscite dal mercato a seguito di un default o di una liquidazione volontaria.
Sostenibilità del debito e solidità economico-finanziaria
Tra il 2007 e il 2013 gli investimenti delle imprese, compresi quelli delle PMI, si sono quasi dimezzati, ma già a partire dal 2014 si è osservata un’inversione di tendenza, con segnali inizialmente timidi che si sono rafforzati nel tempo. Nel 2017, anche grazie agli incentivi previsti dal piano Industria 4.0, la propensione all’investimento delle PMI si è fortemente innalzata, con un rapporto tra investimenti materiali e immobilizzazioni che è passato dal 6,3% al 7,8%.
La ripresa degli investimenti è coincisa con la fine del credit crunch. Il calo dei debiti finanziari, iniziato nel 2011, si è infatti arrestato nel 2015, per poi accelerare moderatamente nel 2016 (+0,6%) e nel 2017 (+1,7%). La ripresa è stata più sostenuta per le medie imprese rispetto alle piccole, per cui il credit crunch si è protratto fino alla fine del 2016. Le PMI hanno anche beneficiato di una maggiore disponibilità di credito commerciale da parte dei loro fornitori, un’altra voce che si era fortemente ridotta durante la crisi: nel 2017 i debiti commerciali sono cresciuti del 7,1% su base annua e, per la prima volta dal 2010, sono aumentati in misura maggiore rispetto al fatturato.
Pur in crescita, i debiti in bilancio delle PMI risultano ampiamente sostenibili. Grazie a un forte aumento del capitale netto (+9% tra 2017 e 2016) si è ulteriormente ridotta l’incidenza dei debiti finanziari in rapporto al capitale proprio, passando dal 72,6% al 68%; rispetto ai livelli pre-crisi (116% nel 2007), il rapporto si è quasi dimezzato. Anche il rapporto tra oneri e debiti finanziari, uno degli indici più spesso utilizzati dagli analisti per valutare la sostenibilità dei debiti, evidenzia un netto miglioramento: dal 13,2% del 2016 al 12,1% del 2017, quasi la metà rispetto al 22,9% osservato nel 2007. Vi ha contribuito la crescita dei margini, la dinamica contenuta dei debiti finanziari e, soprattutto, la diminuzione del costo del debito.
Infine, il 54% delle PMI (circa 80.000) risulta avere un profilo solido secondo lo score economico-finanziario (Cerved Group Score), ben 24 mila in più rispetto al 2012 (39%). Se da un alto sono più numerose quelle che risultano solvibili, sono in netto calo quelle nell’area di rischio (dal 23% al 14%) e i segnali più recenti suggeriscono ulteriori miglioramenti nei prossimi mesi.

Segnali di rallentamento nel 2018: nascono poche società e si allungano i tempi di pagamento
Diversi indicatori monitorati nel Rapporto durante la prima metà del 2018 sembrano però suggerire che la ripresa delle PMI abbia raggiunto un suo picco positivo nel corso del 2017, per poi rallentare o invertire la tendenza nei mesi successivi. Ad esempio, nei primi sei mesi sono nate poche società di capitali, appena l’1,3% in più contro l’8,2% dell’anno scorso. Di contro, sono aumentate le PMI uscite dal mercato (+2,9% su base annua) a causa della ripresa delle liquidazioni volontarie di imprese in bonis, cioè chiusure determinate dal fatto che i margini attesi sono giudicati dagli imprenditori non adeguati a proseguire l’attività: sono state 1.374 le PMI che hanno avviato una liquidazione volontaria (+3,1% su base annua). E’ invece proseguito il calo dei fallimenti, ma a ritmi decisamente meno positivi rispetto a quelli del 2017 (-2,8% contro -19,6%).
Anche le abitudini di pagamento sembrano suggerire che la fase di miglioramento in atto dal 2013 sia giunta a compimento: già negli ultimi mesi del 2017 sono tornati ad aumentare i mancati pagamenti, e nei primi sei mesi del 2018 il trend è proseguito. Inoltre, crescono nuovamente i giorni medi di ritardo delle PMI (10,8 a giugno) e aumentano i ritardi gravi, superiori a due mesi, che in genere sfociano in mancati pagamenti o default. In termini assoluti, i mancati pagamenti e i ritardi rimangono tuttavia a livelli storicamente bassi. Infine, la quota di PMI con un Cerved Group Score rischioso è aumentata nel corso dei dodici mesi dal 10,5% al 10,8% (dal 10,7% all’11,2% tra le piccole imprese).
E le prospettive? Incerte per il quadro macroeconomico e il possibile aumento del costi del credito
Fin qui, lo stato dell’arte. Ma quale futuro attende le PMI italiane? Le prospettive sono condizionate da un quadro macroeconomico molto incerto, per fattori sia esterni – politica commerciale americana, turbolenze finanziarie in Turchia e Argentina, incognite legate alla Brexit, fine del quantitative easing, graduale rialzo dei tassi di interesse avviato dalla Federal Reserve – sia interni.
Secondo lo scenario baseline delineato da Cerved, l’economia italiana nel suo complesso sarà caratterizzata da un moderato rallentamento coerente con la fase internazionale del ciclo economico: Pil in crescita al +1,1% nel 2019 e al +1% nel 2020. In questo contesto, ci si attende che i bilanci delle PMI rimangano ampiamente positivi, con fatturati e valore aggiunto in crescita e indicatori di redditività elevati: i margini lordi dovrebbero accelerare i ritmi di crescita, mentre a livello patrimoniale ci si aspetta che aumenti il ricorso al capitale di debito e prosegua il rafforzamento patrimoniale. I tassi di ingresso in sofferenza delle PMI si avvicinerebbero ai livelli precrisi, attestandosi al 2% in termini di valori e all’1,5% in termini di numeri.
Tuttavia, l’evoluzione dello scenario macroeconomico italiano è pesantemente condizionata dalla crescente sfiducia dei mercati sulla tenuta dei conti pubblici, per via di una politica economica che punta su deficit di bilancio per rilanciare l’economia, derogando agli impegni presi con la Commissione Europea. I timori dei mercati hanno prodotto negli ultimi mesi un deciso aumento degli spread tra i BTP italiani e i Bund tedeschi, con effetti potenzialmente negativi sui tassi di interesse, su cui pesa anche l’incognita del termine del programma di quantative easing a fine 2018. Un aumento prolungato degli spread potrebbe far aumentare i tassi di interesse, interrompere il ciclo positivo degli investimenti e generare pesanti conseguenze sulle PMI, sia in termini di redditività che di rischio.
Tassi di interesse più alti potrebbero anche aumentare nuovamente il numero di PMI con un rapporto tra oneri finanziari e MOL scarsamente sostenibile, che era dimezzato dopo il 2012, passando da 41 mila (36% del totale) a 20 mila (22%). Un aumento di 100 bp del costo del debito farebbe crescere a 24 mila (26%) il numero di PMI a rischio; un aumento di 300 bp a 31 mila (34%). Fortunatamente, i livelli del precedente picco del 2012 rimarrebbero lontani, in parte perché il sistema di PMI si è ristrutturato in questi anni ed è più resiliente, in parte perché è fortemente diminuito il numero di PMI affidate dalle banche. Solo con un incremento di 300 bp e una contemporanea severa caduta dei margini lordi, la quota di PMI con oneri scarsamente sostenibili (36,5%) supererebbe i livelli del 2012.
Individuate da Cerved 5.000 PMI eccellenti che potrebbero quotarsi o aprirsi a fondi di investimento
Esiste però anche un ampio bacino di società con potenzialità di crescita che, se pienamente sfruttate, potrebbero spingere l’economia italiana, ben 5.000 PMI in grado di compiere un salto dimensionale grazie a iniezioni di equity. Il nostro sistema imprenditoriale, tuttavia, si è sempre dimostrato riluttante ad aprire il proprio capitale a una quotazione o a fondi di private equity, soprattutto a causa della presenza diffusa di imprese familiari orientate a mantenere il controllo della società nel lungo periodo.
Grazie ad algoritmi di big data applicati all’enorme business network che Cerved ha mappato in Graph4You, è stato ricostruito il ruolo delle famiglie nelle strutture proprietarie e di governo delle imprese, confermando la presenza di 100.000 PMI in cui una famiglia esercita il controllo, in molti casi senza l’apporto di soci o di componenti del CdA esterni. Da una base di circa 150.000, sono state individuate più di 5.000 società con performance finanziarie eccellenti e che potrebbero avvantaggiarsi di iniezioni di equity: in 3.340 di esse il controllo è esercitato dalla famiglia, in 1.625 casi completamente, sia in termini di proprietà sia di governo..
La presenza di imprese familiari risulta particolarmente alta tra le società che potrebbero interessare i fondi, mentre è più bassa, ma comunque consistente, tra le PMI quotabili. Le differenze tra i due gruppi sono consistenti: il primo comprende aziende mediamente più piccole, operanti soprattutto nei servizi, con una presenza relativa più alta nel Sud e nelle Isole, a carattere familiare e spesso vicine al cambio generazionale, un momento in cui l’apertura ad apporti esterni di competenze e di capitale potrebbe essere particolarmente utile. Aziende appetibili, ma lontane dai radar dei Fondi di private equity, difficili da intercettare senza strumenti di marketing intelligence avanzati.
Le società quotabili sono invece mediamente più grandi, operano in prevalenza nella manifattura e hanno sede soprattutto nelle regioni settentrionali. Se le 4.386 PMI interessanti per un fondo di private equity fossero acquisite e raggiungessero una dimensione media paragonabile a quella delle società già in portafoglio, potrebbero accrescere il loro valore aggiunto di 40 miliardi euro; allo stesso modo, le 699 società quotabili potrebbero aumentarlo di 21 miliardi.
Complessivamente, si parla di quasi 4 punti percentuali sul Pil. Sono stime basate su ipotesi molto forti, in particolare in termini di impatto della partecipazione dei fondi e della quotazione sulla crescita dell’impresa, da interpretare come effetti massimi e raggiungibili nel medio periodo. Pur con queste cautele, indicano un potenziale di crescita che sarebbe importante sfruttare.

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