Cina nuovo polo economico, tecnologico e politico del mondo

A cura di Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management

La Cina è tornata. O “China is back” come direbbero gli slogan dei rivali americani. Dopo un paio di secoli passati sotto traccia, il colosso asiatico sta riacquistando la centralità che ha sempre avuto nella storia fino alle Guerre dell’Oppio (1839-42 e 1856-60), tornando ad essere la grande potenza economica e tecnologica che è sempre stata (polvere da sparo e ruota sono solo alcune delle rivoluzionarie invenzioni che provengono dal genio cinese).

Tuttavia, la Cina di oggi mira ad essere qualcosa di molto diverso dalla cultura che fino al diciottesimo secolo rappresentava da sola circa un quarto dell’economia mondiale. Da nazione chiusa rispetto al resto del mondo, dopo aver preso poi i Paesi occidentali come Stella Polare nelle prime fasi del percorso di crescita, la Cina è oggi proiettata totalmente verso l’esterno, mirando ad espandere la propria influenza economica e politica non solo sull’intero continente asiatico, ma anche in Africa e perfino in Europa.

In tale ottica, non appena Trump, con la sua politica “America First”, ha deciso di uscire senza troppe remore dalla Trans-Pacific Partnership, accordo internazionale che coinvolge molti Paesi asiatici, la Cina è immediatamente subentrata rafforzando le sue relazioni con i Paesi della regione e riallacciando anche i rapporti con gli storici nemici giapponesi. Ma l’emblema della politica estera cinese è sicuramente il programma “One Belt, One Road” (“Nuova via della seta”), il più vasto piano di investimento multi-nazionale dal Piano Marshall, a cui tra i Paesi del G7 ha aderito solamente l’Italia: l’obiettivo non manifesto è quello di allargare la propria sfera di influenza sul continente europeo e su quello africano, non più visto solo come fonte di risorse naturali ma anche come terreno fertile per i propri colossi tecnologici. E, come spesso è successo in Cina negli ultimi decenni, lo sviluppo economico dell’ampia regione coinvolta nel programma passerà prima di tutto dagli investimenti in infrastrutture, in grado di collegare fisicamente e culturalmente territori molto distanti tra loro. Si tratta del paradigma dello sviluppo economico cinese dalla Riforma Dengista (1978) in poi e che ha portato la Cina ad avere oggi 230 città dotate di aeroporti (altri 100 sono in progettazione), 7 dei 10 porti maggiori al mondo e a realizzare in soli 24 mesi un tratto di ferrovia ad alta velocità di 1.700 km che collega Pechino e Shanghai.

Se si dovesse indicare un momento di svolta nella storia recente del Paese questo sarebbe senza dubbio il dicembre del 1978, quando Deng Xiaoping appunto ha assunto la guida della Nazione dopo Mao Zedong e ha avviato un periodo di drastiche riforme destinato a produrre il “socialismo con caratteristiche cinesi”, in cui socialismo ed economia di mercato, capitalismo convivono. Da quel momento, la Cina ha vissuto decenni di crescita sfrenata, diventando, tra le altre cose, la più grande potenza manifatturiera al mondo (nel Paese viene prodotto il 30% dell’output globale), con città come Shenzhen, all’epoca un villaggio di 11mila pescatori alle porte di Hong Kong, che oggi è una megalopoli da 13 milioni di abitanti e un polo tecnologico che fa concorrenza alla Silicon Valley californiana.

Un nuovo paradigma di crescita

Oggi la Cina è pronta a fare un ulteriore passo in avanti, abbandonare la concezione quantitativa di crescita (non più a doppia cifra) a favore di una più qualitativa, in cui, al fianco della prosperità dei cittadini, diventano prioritarie tematiche di natura sociale e ambientale, secondo una guida del Partito Comunista ispirata al buon padre di famiglia confuciano. Non deve sorprendere, quindi, che oggi sia di gran lunga il Paese che spende di più al mondo nelle energie pulite o che il leader Xi Jinping abbia deciso di avviare un’iniziativa per trasformare le megalopoli della regione in smart city, più digitali e sostenibili.

In questo processo di trasformazione della crescita, avrà un ruolo ancora più centrale l’innovazione. Partendo da una posizione di avanguardia assoluta (è il Paese con più pubblicazioni scientifiche e più brevetti), con il programma “Made in China 2025” il Governo mira a riqualificare il brand cinese e a conquistare la leadership globale in una serie di campi chiave, come le tecnologie digitali (in particolare intelligenza artificiale e 5G, su cui ha già un enorme vantaggio competitivo), i trasporti e l’aerospazio, le energie pulite e i veicoli elettrici, la robotica e la sanità.

Si tratta di un obiettivo ambizioso, che sta portando la Cina ad un vero e proprio scontro con gli Stati Uniti, che negli ultimi due secoli hanno dominato a livello tecnologico, e non solo, il mondo. Non è un caso che i due Paesi negli ultimi anni siano entrati sempre più spesso in conflitto, con continue tensioni sotto forma di guerra dei dazi, ma alla cui base non ci sono soia, elettrodomestici e prodotti agricoli, bensì la leadership tecnologica globale. Soprattutto qualora Donald Trump dovesse essere confermato Presidente degli Usa, sembriamo destinati a vivere in un mondo sempre più bipolare, in cui si viene delineando una nuova “guerra fredda”, che vede opporsi al gigante nord-americano non più la Russia, ma il Regno di Mezzo, meno avanzato dal punto di vista militare, ma enorme potenza economica, tecnologica e industriale.

La Cina nel nuovo mondo dopo il Covid-19

La pandemia del nuovo coronavirus si è abbattuta sulla popolazione mondiale come uno spaventoso tsunami, in grado di produrre uno shock sincrono di domanda (consumi) e offerta (produzione) che ha gettato l’economia in una profonda recessione. In Cina, dove tutto ha avuto inizio, si sta provando a tornare a una forma di normalità, in parte diversa rispetto a quella precedente alla crisi. Essendo stato il primo Paese ad entrare in emergenza, è anche il primo a sembrarne fuori: i livelli di consumo di carbone e di congestione del traffico cittadino delle grandi megalopoli indicano che l’attività è ripresa ad un ritmo quasi normale. La rapidità di questa ripresa fa sì che l’economia possa subire minori danni strutturali permanenti rispetto a quanto potrebbe avvenire in altri Paesi del mondo, tanto che già nel 2021 la crescita del Paese potrebbe tornare vicina al potenziale.

A maggior ragione, se si considera la portata degli stimoli fiscali e monetari messi in atto negli ultimi mesi. Dal punto di vista monetario, in particolare, occorre ricordare che la PBoC (People’s Bank of China) si è comportata in modo diverso rispetto alle controparti sviluppate: invece di espandere il bilancio per lanciare programmi di acquisto di titoli, la banca centrale ha agito direttamente sulla leva della liquidità privata, impattando direttamente nella creazione di credito a imprese e famiglie, che negli ultimi mesi ha subito di conseguenza una brusca impennata. Grazie al particolare assetto politico e finanziario del Paese, la PBoC ha infatti il potere di manovrare gli aggregati monetari tramite il controllo vero e proprio del finanziamento bancario all’economia reale (attraverso liquidità, prestiti, obbligazioni, azioni e via dicendo), con l’obiettivo fissato dal proprio mandato di garantire la stabilità della valuta al fine di permettere lo sviluppo economico.

Il nuovo mondo che il Covid-19 ci restituirà porrà delle sfide cruciali per l’ascesa definitiva del Dragone cinese. In primo luogo, per favorire i citati programmi di investimenti infrastrutturali e tecnologici, la Cina deve necessariamente aprire ulteriormente il proprio sistema finanziario, proseguendo il cammino già intrapreso negli ultimi anni (di recente è stato registrato un boom delle licenze concesse a banche americane per operare sul territorio cinese). Nel fare ciò, deve fare attenzione a non intaccare la dominanza domestica nell’immenso mercato obbligazionario locale, il secondo più grande al mondo dopo quello statunitense. Come succede in tutti gli altri grandi mercati obbligazionari sviluppati (Usa, Giappone ed Eurozona), l’apertura agli investitori esteri non deve intaccare la solida base di investitori nazionali, una sfida che per dimensioni e caratteristiche intrinseche del sistema finanziario sembra assolutamente alla portata del colosso asiatico (oggi gli investitori stranieri detengono poco più del 2% delle obbligazioni cinesi onshore, per quanto tale quota sia in crescita e destinata a crescere ancora nel tempo).

Un livello di debito estero molto basso consente, infatti, alle obbligazioni del Paese di avere maggiore stabilità rispetto al resto dei mercati emergenti, più in linea, come detto, con quanto avviene nelle economie sviluppate. Per tale motivo, i bond cinesi si sono rilevati asset storicamente difensivi, sia nella versione in dollari (più correlati con i Treasury Usa) che in quella in renminbi (asset class decorrelata con il resto dei mercati finanziari). Lo stesso non si può dire per le azioni, che da sempre hanno mostrato una volatilità più elevata, allineata a quella degli altri Paesi emergenti. Tuttavia, nel contesto attuale, grazie al fatto che la Cina è stata la prima nazione ad uscire dalla crisi, le azioni locali hanno mostrato una certa resilienza. Un elemento che le rende particolarmente appetibili, viste anche le valutazioni relativamente economiche: la mancata espansione del bilancio della PBoC ha infatti impedito l’espansione dei multipli osservata in altri parti del globo, soprattutto nei Paesi anglosassoni.

Infine, un altro nodo cruciale per il futuro del Paese riguarderà le filiere di approvvigionamento globali. Le tensioni commerciali sino-americane prima e la pandemia di Covid-19 poi hanno mostrato la vulnerabilità di tali filiere e i rischi connessi a un’eccessiva dipendenza dalle catene multinazionali. Si tratta di un fattore che fino a qualche anno fa avrebbe potuto comportare significative implicazioni negative per il Paese asiatico. Oggi, però, la Cina non è più strategica nelle filiere produttive grazie al basso costo della manodopera. Negli ultimi 10 anni tale costo è infatti raddoppiato tanto che interi segmenti della produzione sono stati spostati nei Paesi limitrofi (come il Vietnam, per esempio). Nel mondo moderno, la Cina è cruciale per avere accesso all’immenso mercato asiatico: grazie alla sua efficienza logistica e al sistema di trasporti più avanzato al mondo, rappresenta la porta per l’intero continente, un mercato da 4 miliardi di persone con un’età media tra i 30 e i 35 anni (per rendere l’idea, in Europa siamo 900 milioni di abitanti con un’età di 60 anni circa).

Per questo, anche se ci potrà essere una riarticolazione delle filiere produttive con la nascita di diverse catene su base regionale, più vicine ai luoghi di consumo (una nord-americana, una europea e una asiatica), nessuna multinazionale al mondo si sognerà mai di abbandonare il mercato cinese e, in modo più ampio, quello asiatico. Un’imperdibile opportunità di business come dimostra per esempio il settore automobilistico: la Cina, che è già il primo mercato al mondo per le automobili, presenta una media di sole 150 vetture ogni 1.000 abitanti, contro le 930 che abbiamo in media in Europa.

Parliamo quindi non solo del più vasto mercato al mondo, ma anche di quello con il potenziale di crescita di gran lunga maggiore. La Cina è tornata, ed è qui per rimanerci a lungo.

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