Cina: un’alternativa interessante, ma da maneggiare con cautela

In una fase di stallo per la ripresa dell’economia, tanto in America quanto in Europa, e mentre il giocattolo del grande recupero azionario sembra essersi inceppato e lo stesso oro risente dell’avversione generalizzata al rischio, una parte del mercato guarda alla Cina come alternativa per i suoi investimenti. La Cina sembra del resto offrire quattro elementi positivi, che lo diventano ancora di più se paragonati alla situazione nel resto del mondo”. Ad affermarlo è Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, che di seguito spiega nel dettagliao la propria view.

Il primo punto è che il Covid in Cina non c’è più ormai da cinque mesi. Fatte le dovute tare sulle comunicazioni ufficiali, sulla censura e sulla propaganda, resta però difficile provare il contrario, tanto che anche gli oppositori interni ed esterni si concentrano da tempo su altri punti critici, ma non parlano più della pandemia. La storia farà luce sulle responsabilità cinesi nell’occultare la pandemia nelle sue prime fasi, ma l’azione di contenimento e di spegnimento degli ultimi focolai dopo i tre pesantissimi mesi di Wuhan e dell’Hubei è stata senza ombra di dubbio rigorosa, implacabile e, fino ad oggi, efficace.

Il secondo punto è che la Cina ha risposto alla crisi economica provocata da Covid in un modo diverso dal nostro. Di fronte al doppio shock di domanda e di offerta noi (in America e in Europa) abbiamo sostenuto la domanda, la Cina ha sostenuto l’offerta. Noi abbiamo supportato le famiglie e i consumi, sia con assegni inviati a casa direttamente dal Tesoro (in America) sia inducendo le imprese medie e grandi a mantenere il lavoro e garantire lo stipendio ai dipendenti anche quando l’attività è restata bloccata, pena il mancato accesso agli aiuti pubblici (in Europa). La Cina non ha offerto alcun sostegno alle famiglie e alla loro domanda di consumi e ha concentrato gli aiuti sulle imprese a patto che riprendessero a produrre, ha indotto i centri commerciali a restare aperti anche di notte, ha permesso il commercio informale (lo straccio sul marciapiede sul quale si prova a vendere di tutto) e ha rilanciato le sue politiche anticicliche tradizionali (infrastrutture e costruzioni).

In pratica noi ci siamo trovati con più soldi che prodotti, mentre la Cina si è trovata con più prodotti che soldi. La Cina ha quindi prodotto anche per noi, esportando, e noi abbiamo consumato anche per lei, importando.

Il Pil cinese chiuderà quindi il 2020 con un segno positivo, il resto del mondo con un segno ampiamente negativo (ricordiamo che il Pil è il prodotto interno, anche quello esportato, e non quello importato). La bilancia delle partite correnti cinese, da qualche anno in pareggio, è quindi tornata in attivo e questo, insieme ad altri fattori, ha provocato un rafforzamento consistente del renminbi. Se alla fine di maggio occorrevano 7.19 renminbi per comprare un dollaro, oggi ne bastano 6.84. In pratica, ironia delle ironie, la guerra commerciale contro la Cina partita nel 2018 vedrà quest’anno un aumento della quota di mercato delle imprese cinesi.

Il terzo fattore che può apparire interessante a chi investe in Cina è la stabilità. Si tratta di una stabilità più apparente che reale. La Cina è strutturalmente fragile e la sua parvenza di stabilità è garantita con strumenti autoritari che sono in realtà un segno di debolezza. L’America, dal canto suo, appare particolarmente agitata in questo periodo storico e in questa fase politica, ma ha un suo baricentro ancora solido. In certi momenti, tuttavia, anche le apparenze contano.

Così come conta, per chi investe, la stabilità del cambio, che oscilla intorno a 7 renminbi contro dollaro ormai da dieci anni, e, almeno per quest’anno, quella delle borse cinesi, molto composte durante la pandemia e meno euforiche, ma comunque in buon rialzo rispetto all’inizio dell’anno, durante il recupero. Fa eccezione solo Hong Kong, per i noti problemi.

Il quarto fattore interessante è il rendimento elevato dei titoli di Stato cinesi, acquistabili anche attraverso Etf, su tutte le scadenze. Il decennale rende il 3.10%, lo stesso livello del Treasury americano nell’ultima parte del 2018, quando il dollaro attirava capitali dal mondo proprio per i suoi rendimenti. Le obbligazioni corporate cinesi rendono anche di più (talvolta molto di più) ma caveat emptor, perché da qualche anno è cessata la policy dei salvataggi generalizzati e ora i default sono possibili (e presenti) come da noi.

Detto questo, chi investe in Cina deve avere chiari anche i rischi che corre.

Ci sono in primo luogo rischi geopolitici. La guerra fredda tra Stati Uniti e Cina è iniziata da poco tempo e facciamo fatica a tenerne il debito conto, ma è una questione seria che resterà a lungo tra noi. L’eventuale arrivo di Biden alla Casa Bianca non cambierà le cose se non nella forma. I democratici sono del resto tradizionalmente più falchi dei repubblicani in politica estera. A parte la parentesi neocon di Bush, che nessun repubblicano vorrebbe oggi ripetere, il Vietnam l’ha cominciato Kennedy e hanno fatto più guerre Clinton di Reagan e Obama di Trump.
E di guerra come possibilità nel futuro non necessariamente remoto si parla da tempo sia a Washington sia a Pechino. Non una guerra nucleare, ma nemmeno uno di quei conflitti in paesi terzi lontani con cui si tenevano occupati Stati Uniti e Unione Sovietica ai loro tempi. La Cina, che si sente soffocata dal controllo americano delle sue coste e che è già in un conflitto a bassa intensità con l’India, sta provando a sfondare nell’altra direzione attraverso la Via della seta e cerca uno sbocco sull’Oceano Indiano attraverso il Myanmar e il Pakistan. La frizione lungo i mari del Pacifico, tuttavia, è destinata a crescere ancora e a trovare sfogo in possibili incidenti con Taiwan (che la Cina intende riconquistare) o nel Mar Cinese meridionale.

La crescente propensione americana a utilizzare le sanzioni economiche potrebbe un giorno comportare ostacoli di vario genere per chi investe in Cina. Ne abbiamo già dei piccoli esempi nel minacciato delisting dei titoli cinesi quotati sulle borse americane o nel peso ridicolmente basso (per pressione americana) dei bond e delle azioni cinesi negli indici globali.

Una seconda avvertenza da considerare è che la divergenza che il Covid ha creato tra Cina e resto del mondo rientrerà almeno in parte quando Covid, augurabilmente, sarà uscito di scena. Già nella seconda parte del 2021, quindi, la bilancia delle partite correnti cinese potrebbe tornare a normalizzarsi e il renminbi, di conseguenza, perderebbe una parte della sua forza recente.

Chi investe o vuole investire in Cina farà quindi bene a restare su strumenti liquidi e a tenere conto delle fluttuazioni del cambio, spesso superiori al rendimento dei bond. Quanto all’azionario, va ricordato che gli indici di borsa (su cui spesso sono costruiti gli Etf) contengono in tutta l’Asia una quantità significativa di grandi carrozzoni pubblici di dubbia profittabilità. Meglio puntare sulle aziende private che si rivolgono al consumatore urbano cinese delle città intermedie, quello che aspira alla qualità ma non può permettersi il grande marchio globale.

Tornando alle nostre latitudini, la correzione delle Borse, oltre ai fattori stagionali e alla stanchezza per il lungo recupero, ha come motivazione anche i timori sulla seconda ondata. Nei loro momenti più bui i mercati temono non solo nuovi lockdown generalizzati, ma anche una risposta questa volta debole da parte della politica monetaria e fiscale, se non l’esaurimento delle armi a disposizione per sostenere economie e mercati.

Non siamo ovviamente in grado di dire se l’epidemia sarà davvero così forte da costringere di nuovo i governi a quelle misure restrittive che si erano fermamente ripromessi di evitare. Sappiamo però, e lo vedremo meglio la prossima settimana, che di armi fiscali e monetarie ce ne sono ancora molte, anche se le elezioni americane ne complicano l’utilizzo nel breve termine.

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!