Considerazioni sul 2018 e Asset Allocation per il 2019

A cura di Carlo De Luca, Responsabile delle Gestioni, Gamma Capital Market

Sul fronte delle performance il 2018 si è rivelato addirittura peggiore del 2011 come numero di asset class che hanno chiuso l’anno in territorio negativo; alle strategie più tradizionali si sono infatti aggiunte quelle di tipo alternative, che non sono riuscite a proteggere l’investitore dalla discesa dei mercati finanziari.
I mercati obbligazionari hanno sofferto per tutto l’anno, così come quelli azionari, ad eccezione degli indici statunitensi che erano riusciti a conservare fino a settembre una performance positiva di tutto rispetto, perdendo poi nell’ultimo trimestre tra il 20% e il 25% dai massimi precedentemente raggiunti.
I dati macro USA sono peggiorati durante tutto l’anno, battendo in negativo le attese degli analisti come si evince dal grafico Citi Economic Suprise Index.


Il motivo del peggioramento dei dati macro è dovuto a vari fattori esogeni, in primis la guerra commerciale tra USA e Cina; inoltre a questa, a fasi alterne, si è aggiunto il pericolo di una “hard Brexit” e quello sistemico dell’area euro in scia alla dialettica conflittuale tra Italia e UE in merito all’ultima finanziaria.
Il grafico seguente mostra l’indice dell’incertezza politica europea che ha ripreso a salire, dopo un 2017 in diminuzione.

In un mercato debole, minato da continue incertezze, il colpo finale lo ha dato la FED proprio sotto Natale, aumentando di un altro quarto di punto il tasso sui Fed Funds arrivati al 2,50%. Il ritocco era ampiamente atteso dal mercato, ma l’informazione che i rialzi previsti per il 2019 scendevano da 3 a 2 ha completamente spiazzato gli operatori finanziari, visto che solo una settimana prima Powell aveva affermato che la politica monetaria era ormai vicina alla neutralità.
Tutti i mercati azionari hanno perso in media tra il 20% e il 10%, e le gestioni in fondi o in risparmio gestito con profilo medio hanno perso tra il 7% e il 15%, con molti case di gestione rinomate vicine a perdite del 10%. E’evidente ora che il mercato sta prendendo atto di non avere più il supporto a oltranza da parte della banca centrale e la prima reazione è stata prossima al panico; in realtà questo è una fase che prima o poi doveva arrivare ed è un bene che arrivi ora. Dopo anni di QE è giunto il momento per i mercati di camminare da soli, oltretutto ora la FED ha nuovamente delle cartucce da utilizzare, tagliando eventualmente i tassi in caso di peggioramento dei mercati e/o dell’economia.
In particolare, S&P 500 si è portato a ridosso del canale di volatilità rialzista di lungo termine, ma non lo ha rotto in chiusura del mese. Ecco perché non possiamo ancora dire di essere in mercato orso nonostante l’indice abbia perso più del 20% dai massimi precedenti.

La discesa degli indici americani sotto l’aspetto prettamente tecnico è dovuta ad una fase di ipercomprato che abbiamo avuto sia a gennaio 2018 che in estate. Infatti non è un caso che dopo questi strappi si siano avute due fasi correttive importanti.
Dunque, nonostante le incertezze geopolitiche e il fatto che se pur ci troviamo a fine ciclo la FED continui ad essere non accomodante, il pessimismo prezzato dal mercato è esagerato.
Infatti, la FED, Jp Morgan e Goldman Sachs non vedono in alcun modo un rischio di recessione nel 2019, forse molto lieve nel 2020, per cui riteniamo che questi tre grandi istituti finanziari riescano a intravedere situazioni che il mercato non riesce ancora ad interpretare. È probabile anzi che il mercato dia una lettura futura oltremodo pessimista perché non crede in un accordo tra Cina e Usa, unica vera variabile che può anticipare la recessione dal 2020 al 2019. Qualora infatti non si trovasse una comunità di intenti, le Borse potrebbero perdere ancora 10-20 punti percentuali generando una recessione dell’economia grazie al cosiddetto effetto “spillover” ovvero con le perdite finanziarie accumulate nei portafogli che diminuirebbero di fatto il potere di acquisto dei consumatori, come del resto avvenne dopo lo delle bolle finanziarie del 2000 e del 2008.
I dati Macro attesi principali per il 2019 sono i seguenti:

Crescita stabile anche se in decelerazione, inflazione sotto controllo e disoccupazione stabile, ricordano un po’ il goldilocks degli ultimi anni.
Detto ciò per poter fare una previsione per il 2019 e proporre un asset allocation bisogna guardare con molta attenzione questi primi dieci giorni del 2019.
Il cambio di rotta della FED, che ha detto che ora sarà molto più paziente, lascia intendere che, ora che l’inflazione è sotto controllo anche grazie alla discesa del petrolio, guarderà con maggiore attenzione i dati macro; è questo che ha fatto rimbalzare i mercati azionari che avevano raggiunto dei supporti cruciali di lungo periodo.
A mio modo di vedere, questo non sarà sufficiente a mantenere i mercati sopra questi livelli; bisogna capire come si risolverà la Brexit, ma soprattutto è necessario trovare un accordo commerciale tra USA e Cina.
Riguardo a quest’ultimo, nei primi giorni dell’anno si sono fatti molti passi avanti probabilmente perché entrambe le parti hanno capito che non si può andare troppo lunghi con i tempi. La tregua sui dazi scade il 1 di marzo, ma non è escluso che durante il World Economic Forum di Davos si possa già formalizzare un accordo.
A questo punto non ci resta che costruire un asset allocation che tenga conto non solo della fase del ciclo economico, ma anche della nuova politica monetaria della FED.
Per la particolare fase del ciclo economico in cui ci troviamo abbiamo già ridotto da tempo i titoli ciclici con quelli meno ciclici: meno automotive e industriali e semiconduttori, più farmaceutici o servizi sanitari e food & beverage.
Per la nuova politica Fed più accomodante: meno finanziari, più emergenti e oro (meglio se con il cambio dollaro coperto).
In particolare, iniziamo ad accumulare metallo giallo già da ora e gradualmente perché ci sarà molto utile nella seconda parte dell’anno. Non solo perché pensiamo che possa coprire il rischio nei portafogli in caso di taglio dei tassi, ma anche perché se le cose volgessero al peggio non possiamo escludere che la FED implementi un nuovo QE.
Oltre ai settori è però altrettanto importante avere dei temi chiari e una selezione bottom up molto accurata.
La nostra selezione titoli si è sempre distinta per la ricerca di titoli growth legati a megatrend demografici o di settore come la robotica, l’intelligenza artificiale e il biotech. Crediamo che i trend in atto non siano infatti intaccabili dalle crisi finanziarie e lo stesso lo si può dire per la disruption tecnologica in atto.
Un tema in particolare che abbiamo inserito ultimamente nei portafogli è il cyber security; il 2019 infatti sarà ricordato come l’anno della virtualizzazione dei software e del caricamento dei dati sul cloud. Tutto questo lavoro, alla luce della nuova normativa sulla privacy USA, non può essere attuato se non in estrema sicurezza, da cui l’idea di investire in società specializzare nella sicurezza dei dati personali sul cloud.
Restiamo al momento ancora fuori dai bond ad eccezione di quelli emergenti in valuta forte. I local currency potranno fare bene, ma preferiamo inserire rischio con le sole azioni.
In conclusione, la crescita resta stabile anche se in decelerazione e l’inflazione è sotto controllo, questa fase che ricorda un po’ il goldilocks degli anni precedenti, ma molto dipende dalle due variabili più importanti, Brexit e guerra commerciale.
I nostri portafogli contengono già una piccola percentuale di bond dei Paesi emergenti, oro, azioni USA non cicliche ad eccezione di quelle che hanno una storia importante (tecnologia o megatrend demografico), azioni emergenti (Cina, India, Brasile), fondi UCITS alternative Event Driven (nella fase finale del ciclo economico le aziende solitamente crescono per lo più grazie a fusioni ed acquisizioni), Market Neutral e Global Macro.
 
 
 

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