Cosa dice la volpe?

A cura di Pierre Olivier Beffy, Chief Economist di Exane Bnp Paribas
La scorsa settimana ho quasi finito di leggere “Superforecasting”, libro scritto da Tetlock e Gardner. I due esperti spiegano perché alcune persone sono molto più capaci nel prevedere il futuro rispetto ad altre. In particolare, riportano una citazione di Archiloco che utilizzo io stesso ogni anno con i miei studenti: “la volpe sa molte cose, mentre il riccio ne sa una grande”. Essere un riccio è molto pericoloso dal momento che interpreta tutte le informazioni attraverso le lenti di una sola grande teoria portando ad errori di previsione.
Gli investitori tendono ad essere volpi. Sono pieni di dubbi, valutano le probabilità degli eventi e utilizzano modelli proprietari per valutare meglio la situazione e capire come si muove il consensus. Questo è vero soprattutto in questo periodo con il business cycle negli Stati Uniti quasi maturo, sebbene la crescita sembri solida e l’inflazione inizi a salire. Come un bravo investitore mi disse: “ci assumiamo maggior rischio, ma la rinnovata correlazione tra le asset classes e la persistenza di tail risk ci preoccupano”. A mio parere, è un buon riassunto dell’attuale posizione degli investitori.
Come già sapete, riteniamo che il consensus sia stato troppo bearish sulle prospettive d’inflazione nel breve periodo. In particolare, bisogna monitorare l’inflazione statunitense attentamente, dal momento che ogni segnale positivo renderebbe la Fed più incline a riprendere il percorso di rialzo dei tassi. Ad ogni modo, l’indice dei prezzi al consumo (CPI) negli Stati Uniti rimarrà poco significativo per diversi mesi per via degli effetti della stagione degli uragani. Di conseguenza, è particolarmente importante capire l’andamento dell’inflazione negli Stati Uniti. Non è un compito facile;  tuttavia la Fed di New York pubblica l’Underlying Inflation Gauge (UIG) sin dal 2005 proprio per venire incontro a questa esigenza. La metodologia con cui l’UIG viene calcolato “spoglia” l’inflazione degli effetti transitori, per vedere dove questa stia realmente andando.
Guardando l’indicatore UIG, le implicazioni risultano diverse rispetto a quelle fatte guardando il ribasso del CPI del primo semestre. In primo luogo, l’UIG è salito quest’anno (si veda grafico sottostante). Adesso, le misure mostrano un’inflazione sopra il 2% – non così lontana rispetto alle nostre aspettative per il 2018. In secondo luogo, ciò significa anche che il tasso Fed Funds reale rimane significativamente negativo, così come le condizioni finanziarie degli US.
Le conseguenze sono triplici. Innanzitutto, la breakeven inflation ed i tassi a 10 anni dovrebbero aumentare ulteriormente entro la fine dell’anno. In secondo luogo, in linea con le minutes del FOMC di settembre, sebbene sia incerto sull’andamento futuro dell’inflazione, il Committee continua a basarsi su ciò che conosce meglio, cioè che il mercato del lavoro spingerà l’inflazione al rialzo e che quindi un aumento dei tassi a dicembre è possibile. Infine, ogni politica restrittiva della Fed, purché graduale, non dovrebbe costituire un problema per l’economia statunitense e globale, date le attuali condizioni finanziarie accomodanti.
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Inflazione sottostante all’indicatore UIG della NY Fed maggiore rispetto all’inflazione CPI US (%)
In conclusione, i mercati globali si sono recentemente mossi riflettendo una reflazione leggermente maggiore, ma potrebbe non essere finita qui. Il miglioramento sia dell’inflazione che della crescita rimane comunque un tema per il mercato delle commodity. In particolare, gli esportatori di materie prime stanno sovra-performando nelle economie emergenti e solamente il settore energy vale 40bp della crescita US nella prima metà del 2017. Di conseguenza, data la stabilizzazione del prezzo del petrolio nel prossimo anno, i trend del 2018 potrebbero essere molto differenti.
 

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