Da Trump alla politica monetaria: cosa aspettarsi nel 2017

A cura di Steen Jacobsen, Chief Economist e Cio di Saxo Bank
L’orientamento del dollaro statunitense sarà la questione centrale del 2017, poiché una valuta cresciuta del 20% nel corso dello scorso anno scatenerà sicuramente una reazione, e con la prossima amministrazione Trump sarà lecito attendersi lo sganciamento dal dogma ultraventennale che un dollaro forte sia nell’interesse degli Stati Uniti.
Benvenuti nel 2017 e nella Trump-mania, un mondo nel quale un tweet determina a caso l’agenda del Paese e dove essere poco ortodossi è la nuova moda. Perché nonostante tutte le ipotesi che si possono fare su Donald Trump e la sua nuova politica, le questioni rimangono le stesse:

  •        Quale sarà la direzione che imboccherà il dollaro?
  •         Dove si attesterà la crescita della Cina e che ne sarà della sua valuta nel 2017?
  • Il doppio incantesimo BREXIT/Trump rappresenterà la fine di un’epoca o l’inizio di qualcosa di nuovo?

Qual è, delle tre, la domanda più importante? La tendenza del dollaro. Abbiamo un mondo economico, o mercato globale, così semplificato che il dollaro rappresenta oltre il 75% di tutte le transazioni mondiali. Così, se succede che il dollaro cresca del 20% anno su anno – come è capitato adesso – all’ “azione” corrisponderà una “reazione”.
Questa reazione sarà rappresentata da un notevole rallentamento della crescita statunitense, guidata da tassi di interesse superiori alle attese (che riducono la crescita potenziale) e, indirettamente, dalla riduzione della crescita globale mentre il pesante fardello del debito dominato dagli Americani colpirà la capacità dei mercati emergenti di rimborsare i loro enormi debiti in dollari.
Le banche straniere hanno prestato 3.6 bilioni di dollari ad aziende dei mercati emergenti, di cui circa il 50% alla Cina, quindi le domande uno e due sono collegate.
Aumenta il rischio di recessione. I miei cari amici di NedBank, SudAfrica, Neels Heyneke e Mehul Daya, hanno il miglior modello di fase recessiva che io abbia mai visto, che combina situazione monetaria e fondamentali. La sua lettura attuale recita: 60% di probabilità di recessione contro un consenso di mercato solo del 5-8%.
Questo è un grande pericolo, perché sappiamo che le vendite generalizzate nei mercati azionari si verificano prevalentemente nelle fasi recessive. Se la recessione colpisse l’economia statunitense, il ritmo atteso di prelievo ammonterebbe a circa il 25-40%.
Non possiamo ignorare le voci del populismo americano, ma non dovremmo neppure trascurarle in Europa, in un anno di elezioni.
Ma vi assicuro, questa è la fine di un ciclo, non un nuovo inizio. Il mondo non avanzerà con un’agenda fatta di frontiere chiuse, restrizioni commerciali anti-globalizzazione e contrarie alla concorrenza, ma ciononostante occorre che tali forze siano rispettate, soprattutto con un cambio di leadership in area globale.
Trump che farà “riprendere la via di casa” al commercio americano, alle truppe oltreoceano, alla Nato e che ribalterà la politica nei confronti della Cina in vigore dagli anni ’70: tutto questo avrà delle conseguenze.
La cancelliera tedesca Angela Merkel è ora il leader de facto dei Paesi industrializzati, una posizione che non ha mai voluto e in cui si sente a disagio nell’anno delle elezioni in Germania. La Cina riempirà ogni vuoto lasciato scoperto dal cambiamento di rotta degli Stati Uniti.
La leadership cinese sembra più “aperta”, come mai prima d’ora in materia di politica estera e di investimenti, un po’ per opportunità e un po’ in virtù di un disperato bisogno di allontanare l’attenzione dal debito interno in continua crescita e dal deflusso di capitali.
La Cina continuerà probabilmente ad indebolire CNY e CNH ad un livello del 5-10% – probabilmente gradualmente – ma anche, se forzata, attraverso un’altra “svalutazione”, in rappresaglia alla politica americana.
La prossima amministrazione Trump, a mio avviso, perseguirà chiaramente una politica di “dollaro debole”. Tutta la retorica dell’eccessiva debolezza della valuta cinese ovviamente implica che il dollaro USA sia troppo forte. Ma – aspettate – Trump cambierà anche il dogma della strategia secondo cui “un dollaro forte è nell’interesse degli Stati Uniti”, in vigore da quando Robert Rubin, Ministro del Tesoro di Bill Clinton, la lanciò a metà degli anni ’90 (benché nei fatti non sia mai stata la strategia eseguita).
Questo evoca gli anni ’70 e la dottrina Nixon dell’agosto 1971, quando il Ministro del Tesoro John Connally introdusse una sovrattassa unilaterale del 10% su tutte le importazioni, una riduzione del 10% sulle spese di assistenza estera, chiuse la “gold window” (cosicché lo USD smettesse di essere liberamente convertibile in oro) e impose una moratoria di 90 giorni su salari e prezzi.
Sembrerebbe che la dottrina Trump sia di adottare questo come modello per le proprie nuove politiche commerciali e di tassazione sulle società, “twittate” sinora dal Presidente-eletto.
Si, questo è davvero molto simile a un ritorno agli anni ’70 – quando la politica americana era tutta grandi affari, chiusura delle frontiere, recessione (1973-75) e un regime del dollaro statunitense che sarebbe stato così definito da Connally ai Ministri delle Finanze europei riuniti al G-10 di Roma: “Il dollaro è la nostra valuta, ma è il vostro problema”. Questo uccise il sistema di Bretton Wood e cementò una svalutazione del 20% del dollaro.
Il primo trimestre ci svelerà i primi indizi, ma con il passare del tempo aspettiamoci una “dottrina Trump” che sarà un miscuglio di Nixon e Reagan, e attenzione alla grande instabilità.
La vera conclusione per descrivere il 2017, tuttavia, potrebbe essere che il rischio geo-politico conta.
Benvenuti all’inizio della fine dell’era “fingi-e-prolunga” in politica monetaria.

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