Elezioni Usa, attesa ancora più volatilità sui mercati

A cura di Fabrice Jacob, Ceo di JK Capital Management, società del Gruppo La Française

Un dubbio sempre più diffuso in Asia oggi è che Donald Trump sia una tigre di carta? Non passa giorno senza assistere agli attacchi del presidente contro il governo cinese: diatribe che paiono sempre più una strategia elettorale a danno di Joe Biden. Questa crescente aggressività contro la Cina è segnata in modo evidente dalla mancanza di reazioni da parte di Pechino e ci porta a chiederci quali saranno le misure anti-cinesi da adottare per spingere il Dragone a cedere alle sue pretese. D’altra parte, cosa sta chiedendo in realtà la Casa Bianca a Pechino? La risposta non è chiara: si sa solo che in cima alla lista delle richieste c’è la riforma del sistema politico, ma naturalmente si tratta di una pia illusione.

A maggio gli Usa avevano messo nel mirino Huawei. Tuttavia quelle sanzioni vennero preannunciate con tale anticipo che l’azienda ebbe tempo di fare scorta dei chip Usa necessari a produrre il materiale per i prodotti 5G. Vista la portata dei danni che Washington e Pechino potrebbero infliggersi se la Cina dovesse reagire alle sanzioni contro Huawei mettendo al bando tutte le importazioni di chip Usa, riteniamo probabile che si troverà un accordo prima che Huawei esaurisca le scorte di materiali statunitensi. Il fatto che nello stesso giorno Tsmc, produttore di chip per Huawei, abbia annunciato l’intenzione di investire 12 miliardi di dollari in Arizona nella costruzione di una fabbrica per produrre semiconduttori – fra cui anche quelli destinati a Huawei – non è una coincidenza. Per mesi Pechino ha minacciato di pubblicare una lista di “entità inaffidabili” (vale a dire le aziende Usa che era pronta a bandire dalla Cina) e ha usato i giornali sotto controllo statale per far emergere i nomi di Boeing, Apple, Cisco e Qualcomm.

E’ interessante notare come all’ostilità dell’amministrazione statunitense, la strategia cinese è quella di adottare una politica della mano tesa verso le aziende a stelle e strisce. Del resto, gli investimenti diretti Usa verso la Cina sono approvati sistematicamente e ed è degno di nota che siano rimasti stabili a circa 15 milairdi di dollari all’anno. Un buon esempio è quello di Tesla, che l’anno scorso ha aperto a Shanghai una fabbrica da 5 miliardi di dollari, con importanti incentivi finanziari da parte della municipalità. D’altro canto, non sorprende che gli investimenti diretti esteri cinesi verso gli Usa siano invece precipitati dai 46 miliardi di dollari del 2017 ai 5 miliardi del 2019.

Anche sul fronte di Hong Kong, per cui Pechino ha deciso di promulgare una Legge di sicurezza nazionale, la reazione di Washington è stata molto accalorata ma priva di sostanza. Punire Hong Kong, dove operano 1200 società statunitensi, e i suoi 7 milioni di abitanti che sono più vittime che carnefici, non avrebbe raggiunto il vero obiettivo di Trump, che è invece danneggiare la Cina. Colpire direttamente Pechino avrebbe contraccolpi sugli Usa se la Cina dovesse adottare misure contro gli interessi americani sul proprio suolo. In altre parole, la Cina non è l’Iran o la Corea del Nord. Gli Usa e la Cina hanno bisogno gli uni dell’altra ora più che mai, e questa è la ragione per cui non sposiamo la teoria, largamente diffusa dai media in questi giorni, di una nuova Guerra fredda fra i due Paesi.

Se Trump volesse colpire sul serio Pechino, a nostro avviso vi sarebbe una sola decisione da prendere: tagliare fuori tutte le banche cinesi dal sistema del dollaro Usa. Questo avrebbe un impatto catastrofico sulla Cina e sulla sua economia, e con ogni probabilità innescherebbe una crisi globale, se non una guerra a tutti gli effetti. Finché i falchi che siedono a Washington non accennano nemmeno a menzionare questa opzione “nucleare”, guardiamo alla perdurante retorica anti-cinese come a una mera mossa elettorale.

Da qui a novembre prevediamo un rumore di fondo sempre crescente e ci aspettiamo volatilità sui mercati con l’avanzare della campagna elettorale Usa. Ciononostante, il contesto geopolitico non influenzerà il nostro approccio di investimento bottom-up e non ci distrarrà dall’analisi macroeconomica che stiliamo su ogni Paese all’interno del nostro universo. Su questo fronte, la ripresa post-Covid è avviata. Le vendite di auto in Cina ad aprile sono salite del 4,4% anno su anno e ci si attende che crescano a doppia cifra in maggio. Le vendite di immobili ad aprile sono calate del 2,1% anno su anno in volume, tornando sostanzialmente sui livelli di un anno fa. Durante il Congresso nazionale del popolo è stato annunciato un pacchetto di stimoli fiscali da 4 trilioni di renminbi, portando così il totale del pacchetto finanziario a circa il 4% del Pil: una misura più o meno simile a quanto fatto durante la crisi finanziaria globale del 2009. Nel suo discorso di chiusura il premier Li Keqiang ha chiarito che bisognava aspettarsi uno stimolo monetario attraverso tagli dei tassi di interesse e un’accelerazione nella crescita del credito. Il governo centrale chiede alle grandi banche di concedere quest’anno alle piccole e medie imprese il 40% di prestiti in più rispetto all’anno scorso.

Al di fuori della Cina, a maggio abbiamo visto tagli nei tassi d’interesse di 25 punti base in Corea (fino allo 0,50%) e di 40 punti base in India (fino al 4%). Siamo rimasti sorpresi dalla decisione della banca centrale indonesiana di mantenere i tassi di interesse al 4,5% nonostante l’impatto che Covid-19 sta avendo sull’economia. Forse è stato questo il motivo del forte rimbalzo della rupia. La valuta ha guadagnato il 3,3% contro il dollaro Usa a maggio, portando il suo guadagno negli ultimi due mesi al 10,7%.

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