Fugnoli (Kairos): “1968+1999+2008=2020”

Il virus di Covid è apparso a molti ricercatori, tra cui Montagnier del Pasteur di Parigi, un anomalo assemblaggio di altri virus, una specie di Frankenstein naturale o forse artificiale. Curiosamente, il 2020, in particolare se osservato dal punto di vista dei mercati finanziari, appare anch’esso un ibrido creato da una natura caotica o in un laboratorio di apprendisti stregoni.

Come Chimera, il mostro mitologico con una testa di leone, una di capra e una coda di serpente, il 2020, che non è ancora a metà della sua strada e può riservare altre sorprese, assembla parti diverse e stridenti. Come Proteo, il dio mutaforma, cambia continuamente aspetto e prevede il futuro.

Ormai ce lo siamo dimenticato, ma il 2020 è nato come l’anno del ciclo positivo che si fa permanente e come l’anno del melt up azionario. Gennaio e febbraio sono trascorsi nella convinzione che Wuhan non fosse un segno di fragilità ma anzi della forza di un mercato che riusciva a fare nuovi record anche con la Cina paralizzata nel suo stato d’assedio.

Poi Proteo ha cambiato improvvisamente forma e si è reincarnato in un 2008 elevato a potenza. Il mondo è apparso prossimo al crollo, schiacciato dal peso di un debito ingestibile e di una deflazione incombente. I mercati si sono abbandonati al panico e perfino l’oro e i Treasuries, per un momento, sono stati liquidati per fare cassa.

Dopo il crollo di marzo è iniziato un alto Medioevo in cui si è tentato di salvare il salvabile della civiltà arroccandosi nei castelli e nelle abbazie benedettine dei grandi titoli tecnologici, unico faro a squarciare le tenebre e illuminare le rovine dei titoli ciclici.

Su questo mondo stremato, ma stabilizzato dai giganteschi interventi fiscali e monetari, sono poi calati i dieci milioni di Robinhooders, i nuovi guerrieri in pigiama che, armati di una piattaforma di trading gratuita (Robinhood), hanno giocato in Borsa il sussidio di 1200 dollari graziosamente concesso dalle tipografie di banconote del Tesoro, a sua volta supportato dalla Federal Reserve. Nello spirito di frontiera dei trader dotcom del 1999, i nuovi barbari si sono prima mimetizzati comprando, come tutti, i tecnologici. Poi, veloci come Attila, hanno invaso le praterie dei ciclici. I più bellicosi si sono messi a correre nei campi minati dedicandosi ai titoli delle società appena entrate in amministrazione controllata, solitamente hortus conclusus degli specialisti di private equity, arrivando in certi casi a decuplicarne il valore di Borsa.

Chapeau ai Robinhooders, che hanno saputo cogliere l’attimo meglio dei professionisti che li hanno dovuti inseguire e meglio dei Buffett che sono rimasti alla finestra paralizzati. Chapeau e auguri, perché la loro stagione si profila, come sempre, intensa ma breve. Organicamente rialzisti, avranno anche loro qualche problema a gestire la volatilità, soprattutto se a leva. La loro missione storica è terminata e al prossimo giro di rialzo saranno i professionali a riprendersi in mano il gioco.

Mentre la stagione dei ragazzi del 1999 (e dei loro figli) si avviava a toccare il suo punto più alto, i ragazzi del 1968 tornavano sulla scena. Caricata come una molla dal confinamento da Covid, l’America è tornata a combattere nelle piazze la guerra civile culturale che la dilania dall’inizio degli anni Sessanta. L’ha fatto carica di rabbia ma anche, guardando le cose dalla gelida Europa, di energia.

Molti storici hanno allora paragonato il 2020 con il 1968. Anche allora le rivolte nei ghetti, una società profondamente divisa e radicalizzata, un’epidemia più devastante di Covid (cui peraltro si badò poco), una Casa Bianca assediata e un candidato Law and Order che si presenta come ultima difesa dall’anarchia. Quella volta Nixon (l’uomo che vide in Trump un futuro presidente) conquistò la Casa Bianca, mentre il Dow Jones riuscì a concludere l’anno con un rialzo del 4 per cento. Questa volta non lo sappiamo.

Sappiamo che i mercati dovranno a un certo punto tornare a pensare alla politica americana perché Trump, per farsi spazio, tornerà a occuparsi molto di Cina (dichiarando di fatto decaduto l’accordo di dicembre e alzando i dazi) e perché Biden, se eletto e se dotato di maggioranza anche al Senato, cancellerà i tagli di imposte del 2017-18 e riporterà indietro di 20 dollari gli utili per azione dell’SP 500. Il rialzo delle imposte sarà graduale, per non stroncare sul nascere la ripresa post-Covid, ma il messaggio sarà chiaro e sarà antibusiness su tutta la linea.

Al tempo stesso, tuttavia, la politica monetaria rimarrà straordinariamente espansiva, come ha confermato ieri Powell, per un tempo straordinariamente lungo. La Fed sarà instancabile nella produzione di nuove armi contro inflazione e disoccupazione. La prossima sarà il controllo di curva, ovvero la fissazione dei tassi non più solo di breve ma anche di medio periodo.

Se i mercati hanno dichiarato terminata la grande fase di recupero e aperto una fase delicata di consolidamento non è perché la Fed ha deluso le attese (al contrario) ma perché Powell ha ricordato con molta energia che la generosità della Fed non è un piacevole regalo che va ad aggiungersi alla ripresa economica, ma una drammatica necessità davanti alla voragine di depressione e deflazione che resta spalancata davanti ai nostri occhi anche se avevamo smesso di guardarla e preteso che non ci fosse più. È la stessa cosa che ci ricorda la Bce quando dice, con lo sguardo rivolto a Karlsruhe, che il Pil dell’Eurozona tornerà ai livelli del 2019 solo nel 2023. Ecco allora Proteo che per un attimo, abbandonate le forme del 1999 e del 1968, adotta di nuovo l’aspetto del 2008.

Insomma, il paradigma del 2020 è quello di incorporare in sé numerosi paradigmi, contemporaneamente se ne vediamo la struttura, in sequenza se ne vediamo l’apparenza. È dunque un anno fatto per dare ragione a tutti, a turno, e per dare torto a tutti. E poiché Proteo oltre che mutaforma è anche oracolo, il 2020 ci annuncia un decennio a elevata instabilità, con montagne di debito sostenuto al centro dalla monetizzazione (e però franante alla periferia) e con un azionario volatile, soggetto a continue rotazioni ma comunque sostenuto da una strutturale espansione dei multipli più che da una crescita degli utili.

In acque agitate l’imbarcazione deve essere solida. Niente leva, livelli di rischio sopportabili, oro, corporate bond di buona e media qualità. Sull’azionario continuiamo a suggerire di entrare un po’ alla volta. Chi è già investito tenga, senza farsi ingolosire dalle componenti più speculative del mercato. Dollaro in modesto indebolimento, da considerare positivamente anche per chi ce l’ha nella misura in cui reflaziona il resto del portafoglio.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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