Gli aspetti teorici della questione ambientale

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners

Se è vero che sono le minoranze a fare la storia, questo è ancora più vero per la colonizzazione di Marte. Mentre quasi tutti viviamo nella serena ignoranza della questione, la Mars Society, lobby influente e organizzazione privata di altissimo livello di scienziati e imprenditori visionari, ha già pronti i piani dettagliati per una serie di colonie da mille abitanti (le presentazioni sono su YouTube) e ha indetto un concorso per progettare una città che ospiti un milione di persone.

Marte e Venere erano un tempo simili alla Terra di oggi ma col tempo sono andati in rovina. Venere, con le nostre tecnologie, è praticamente irrecuperabile, con Marte si può provare. È freddissimo, ha un’atmosfera sottilissima che non filtra le radiazioni, un terreno e un’aria tossici e tempeste violente di sabbia che durano mesi. Ma ha ancora acqua ghiacciata, anche se la sta perdendo velocemente. Si può quindi ancora fare terraforming, ovvero riplasmare il pianeta in modo da renderlo abitabile anche in superficie e non solo nelle cavità sotterranee dei vulcani spenti. Va insomma creato un effetto serra, esattamente quello che da noi si vuole contenere.

La soluzione è quella già indicata dalla Nasa mezzo secolo fa, bombe atomiche sui poli di Marte che ne sciolgano i ghiacci (quelli che da noi vogliamo preservare) in modo da ricreare oceani e vapore acqueo che, combinandosi con l’anidride carbonica già presente, rafforzi l’atmosfera e crei un effetto serra. Elon Musk, che è molto più avanti della Nasa nella costruzione di sistemi di trasporto per Marte, si è detto recentemente favorevole all’idea, con tanto di T-shirt con la scritta Nuke Mars. I conservazionisti ovviamente si oppongono, in parte perché hanno un’idea negativa del nucleare (anche se il sole è esattamente una centrale nucleare) ma soprattutto perché ritengono che non si debba fare violenza alla natura. Ovviamente si oppongono anche all’idea di modificare geneticamente i futuri colonizzatori di Marte in modo da rendere loro più facile la sopravvivenza in un ambiente così diverso.

L’esempio di Marte ci porta al cuore della questione ambientale e alle domande vertiginose che questa ci pone prima ancora di arrivare alla questione esistenziale (siamo in pericolo imminente di estinzione?) che affronteremo più avanti.

Le domande decisive sono due. La prima, ontologica, è se noi umani siamo natura (per cui per definizione qualsiasi cosa facciamo è naturale e quindi giustificata), se siamo sopra la natura (il Creato al nostro servizio di Genesi 1, 26-27) o se siamo un indegno corpo estraneo, un tumore che andrebbe idealmente eliminato autoestinguendoci (come dicono frange di ecologismo radicale). E che cosa è la natura? È un organismo vivente con cui convivere in armonia rispettandone i ritmi (taoismo)? Ha un’anima buona e generosa (animismo New Age) o è un’entità oscura e temibile da ingraziarsi con sacrifici che ne riconoscano la superiorità (paganesimo classico, sciamanesimo)? O è invece caos indifferente a noi (il primo Leopardi) o addirittura il più grande e violento nemico degli uomini, da combattere, anche se inutilmente, con tutte le nostre forze (l’ultimo Leopardi)?

La prima domanda ci porta alla seconda, di natura etica. È l’ambiente al nostro servizio o siamo noi a dovere servire l’ambiente? Se vogliamo preservare l’ambiente è per nostro vantaggio (utilitarismo) o perché l’ambiente ha una sorta di sacralità e va preservato in sé (ambientalismo)? E che facciamo se l’ambiente se ne va in rovina da solo, come sta succedendo su Marte? Lo salviamo o non interferiamo? E salvare chi e che cosa, noi o i nostri successori? Se per salvare il (loro) pianeta gli anaerobi del Precambriano, da bravi cittadini, avessero lanciato un Black Deal per prevenire la diffusione delle foreste e dell’ossigeno (che per loro era mortale), loro sarebbero ancora qui, ma noi aerobi non saremmo mai nati.

Queste e altre domande e contraddizioni attraversano quasi tutti i grandi paradigmi di pensiero nei quali siamo immersi. Nella tradizione religiosa occidentale, ad esempio, si intrecciano il suprematismo specista umano del libro della Genesi con il riconoscimento della grandezza di ogni parte del Creato, anche la più umile, della tradizione francescana.

Nella sinistra convivono il culto dello sviluppo (quello che ha portato al terraforming dell’Asia centrale sovietica e alla catastrofe del mare di Aral e che ha fatto fino a ieri della Spd il partito del carbone e dell’auto) e l’ambientalismo apocalittico degli ultimi tempi dietro il quale fare passare altri temi. Nella destra convivono da una parte l’anima faustiana della volontà di potenza e del dominio della natura, presente ad esempio nella retorica fascista delle grandi bonifiche e nel futurismo, e dall’altra la retorica tedesca del Sangue e Terra, che parte dal Romanticismo e che diventa ecologismo razziale nei film di ambientazione alpina che Goebbels faceva produrre durante la guerra.

Quanto ai nuovi culti dell’ultimo mezzo secolo, vediamo la convivenza in molti personaggi di Silicon Valley di elementi da una parte di ecologismo neopagano New Age e dall’altra di transumanesimo faustiano, quello che motiva molti nuovi magnati a teorizzare una fortissima accelerazione dello sviluppo delle forze produttive in cui includere la colonizzazione dello spazio.

Chi si oppone a questo sviluppo esasperato è proprio l’ecologismo ortodosso e fieramente anticapitalista, che con Serge Latouche e il gruppo Mauss ha elaborato, con una dignità intellettuale che le va riconosciuta, la teoria della decrescita felice. In realtà Latouche non ha al centro dell’attenzione l’ambiente, ma un modello di umanità conviviale, solidale, localista e anticonsumista che la sera fa tardi chiacchierando amabilmente con gli amici e non va a letto presto perché l’indomani dovrà alzarsi all’alba per produrre beni di consumo inutili che dovranno presto essere rottamati per creare profitto. È per questo, si noti, che il vero bersaglio di Latouche (e di de Benoist) è la teoria dello sviluppo sostenibile, che nella sua visione è solo un pretesto per prolungare il dominio dell’oligarchia mondialista.

Lo sviluppo sostenibile è del resto una delle due anime del pensiero liberale o sviluppista contemporaneo, l’altra, per comodità, è quella di Trump, Putin o Xi Jinping. Entrambe le anime sono figlie dell’illuminismo e sono faustiane, perché, direbbe Latouche, mettono l’accento sullo sviluppo all’infinito, che non deve assolutamente essere interrotto. Nel primo caso, in economie mature che sono diventate economie di sostituzione, si rottamano auto, lavatrici, case non coibentate, l’industria del carbone e del petrolio, le centrali termoelettriche, parte della chimica e reti di comunicazione per sostituirle subito con prodotti, case e industrie nuove o rinnovate. E già oggi sappiamo che fra quindici anni si scoprirà che lo smaltimento delle batterie e del fotovoltaico inquina e si proporrà l’idrogeno, con rottamazione veloce dell’elettrico. E così via.

L’altro filone sviluppista, quello alla Trump, ritiene che lo sviluppo, anche se inquina, non vada troppo indirizzato perché a un certo punto trova da solo la strada per autocorreggersi. Il Texas, stato repubblicano e petrolifero per eccellenza, si è diversificato da solo nelle rinnovabili senza bisogno di piani trentennali all’europea e ora produce a buon mercato ed esporta ogni tipo di energia. Quanto alla Cina, Gramsci diceva che la psicanalisi comincia da un certo livello di reddito in su e lo stesso si può dire oggi dell’ecologia. Da un certo livello di reddito la priorità passa dal riempire lo stomaco al non respirare carbone e se la Cina sta finalmente trovando la forza di ridurre la sua dipendenza dal carbone è perché ha raggiunto un livello di sviluppo e di ricchezza per cui può offrire un’alternativa alle decine di milioni di famiglie dello Shanxi e dello Shaanxi che vivono intorno alla produzione mineraria. È difficile proporre al Congo di crescere con l’intelligenza artificiale, è più facile aprire voragini nella foresta equatoriale per estrarre il cobalto per le batterie al litio che ci fanno sentire buoni.

Insomma, lo sviluppo sostenibile è più vicino a quello tradizionale che all’ambientalismo anni Settanta, quando di fronte alla crisi energetica si teorizzava la fine dell’automobile e non la sua trasformazione. E il Green Deal europeo si inserisce perfettamente nella grande tendenza verso reflazione e deglobalizzazione a tappe sempre più forzate che vedremo montare nei prossimi anni con politiche monetarie e fiscali ancora più espansive di quelle che già conosciamo. Un quadro, come sappiamo, strutturalmente positivo per le borse.

Detto questo, rimane la questione di fondo, quella esistenziale. Siamo davvero in pericolo? Mancano davvero otto anni, come dice Greta, al punto di non ritorno? La questione è molto complessa e proveremo a fornire qualche spunto di riflessione la prossima settimana insieme a idee sulla politica economica, sul Green Deal e sul portafoglio di investimenti da preparare per i movimentati tempi nuovi che ci attendono.

Un’ultima osservazione sul coronavirus, il market mover di questi giorni. È vero, come stanno scrivendo in molti, che le epidemie degli ultimi decenni sono sempre rimaste circoscritte. E però anche vero che ogni tanto i virus mutano lungo il cammino e, per fortuna molto raramente, fanno danni gravi. Senza andare troppo indietro, l’influenza del 1919-20 fece dai 50 ai 100 milioni di morti in ogni angolo del pianeta. La popolazione umana era allora di 1.8 miliardi, oggi è di 7.8 e i conti si fanno in fretta. Mettere la mascherina al viso, quindi, e includere il rischio di coda nel disegno dei portafogli, ma rimanere costruttivi sullo scenario di fondo.

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