Guerra valutaria globale

La decisione di Washington di etichettare la Cina come manipolatore valutario rimane essenzialmente simbolica in quanto richiede una ratifica da parte del FMI che, alla luce del comportamento invero assai stabile della divisa cinese negli anni passati, non è poi così scontata. Rimane il fatto che malgrado le sementite ufficiali di voler utilizzare il tasso di cambio come deterrente contro le nuove tariffe imposte dagli USA, ancora oggi la PboC quasi a provocazione fissa il cambio yuan/usd a 6,9996 ovvero ormai a ridosso dell’ormai politica quota 7 dimostrando la volontà di voler allineare il tasso di cambio ufficiale a quello negoziato sui mercati gia da un paio di giorni ben a nord di quota 7.

Al di la della mera valenza del numero tondo, difficile argomentare contro la natura di questo movimento che si configura in un disegno ben più ampio di una guerra valutaria su base globale; in questo contesto le Banche Centrali non sono certo rimaste immobili, e se come detto prima la Nuova Zelanda soprende i mercati questa mattina con un taglio di 50 bps il che porta il Kiwi ai minimi di tre anni contribuendo a spedire anche il dollaro australiano sui minimi decennali, anche l’India si muove sullo stesso binario con un taglio questa notte ai tassi di 35 bps.

Inutile dire come le pressioni politiche sulla FED in questo contesto non facciano che aumentare con il consigliere commerciale alla Casa Bianca (ultra falco sulla questione cinese) Navarro che ieri ha sollecitato la Banca Centrale americana a tagliare entro fine anno i tassi di 75 bps se non di 100 bps per allineare la politica monetaria statunitense a quella estremamente accomodante che sembra ormai essere globalmente diffusa.

L’agenda macro di rimane piuttosto scarna ma non risparmia una sopresa con la produzione industriale tedesca che a luglio fa segnare un inatteso rimbalzo pari al 2,5% (miglior risultato mensile in un biennio) superando di gran lunga le attese posizionate in area 0,5% (giugno -2,0%); ma le notizie positive in Europa sono decisamente scarse, tra l’impasse della Brexit (siamo veramente al lancio degli stracci) e le istanze italiane per un deficit superiore al 2% che sicuramente non incontrerà i favori di Bruxelles.

In questo scenario, tra le commodity, svetta l’oro ancora a un passo dai 1.500 dollari oncia e sui massimi da sei anni a questa parte.

A cura di Wings Partners Sim

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