Il destino del dollaro nell’era della MMT

Racconta Elizabeth Anscombe nell’introduzione al Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, di cui era stata allieva, che il maestro la fermò un giorno in un corridoio dell’università di Cambridge e le chiese improvvisamente perché, secondo lei, gli uomini avevano creduto così a lungo che fosse il sole a girare intorno alla terra e non il contrario. Ovviamente, rispose la Anscombe (come risponderebbe chiunque di noi), l’avevano creduto perché sembra proprio che sia il sole a girare intorno alla terra. Benissimo, replicò Wittgenstein che l’aveva attesa al varco, e come avrebbe dovuto apparire il mondo per fare credere che è invece la terra a girare intorno al sole?

A questa domanda semplice e sconvolgente, uno di quei pugni nello stomaco che la filosofia riesce ancora a tirare, non è stata ancora data una risposta definitiva se non sul piano della neurofisiologia della percezione, che ci spiega che i nostri sensori sono tarati per farci apparire fermi quando ci muoviamo insieme all’ambiente che ci circonda da vicino.

Sia come sia, una singolare forma di geocentrismo prevale ancora quando parliamo di valute. Come nel cosmo aristotelico, siamo portati a credere che tutti i movimenti del dollaro rispetto alle nostre valute siano dovuti al dollaro e non a noi. Leggete una qualsiasi analisi sui cambi e vedrete che i nove decimi sono dedicati a un’analisi minuziosa della politica monetaria e fiscale degli Stati Uniti, alla loro velocità di crescita, alla loro produttività e al loro Covid e solo una piccola parte viene dedicata a quello che stanno facendo gli altri Paesi. Solo le valute dei paesi emergenti sono trattate come protagoniste nel bene e nel male del loro destino, quasi fossero asteroidi che si muovono erraticamente motu proprio.

Negli ultimi giorni il recupero del dollaro, peraltro modesto, ha destato particolare sconcerto, anche perché il consenso universale era compattamente orientato verso un suo indebolimento sia ciclico sia strutturale. Il consenso, già maturato da mesi, sembrava dovere trarre ulteriore forza dalle vicende poco edificanti della politica americana, dalla vittoria dei democratici anche al senato e dal profilarsi di un nuovo imponente pacchetto fiscale già pochi giorni dopo l’approvazione dell’ultimo di 900 miliardi.

Lo sconcerto sul dollaro è stato spiegato con un altro sconcerto, quello sui tassi a lungo americani. Qui, a dire il vero, c’era già l’attesa di un rialzo, ma non con la velocità che si è vista sul campo. Questa, a sua volta, è stata spiegata con il brusco rialzo dell’inflazione attesa, che ha ormai superato il 2 per cento, come si evince dalla quotazione dei titoli indicizzati.

Mettere ordine in questo complesso di elementi non è facile. Se potete scegliere, aveva detto Russell Napier a metà dicembre, fatevi regalare per Natale il grafico dell’inflazione del 2021. L’inflazione e la funzione di reazione all’inflazione da parte della Fed e del mercato sono in effetti i punti di partenza di qualsiasi analisi. E qui le difficoltà cominciano subito, perché non solo non è semplice capire quanta inflazione ci sarà nei prossimi mesi, ma è anche difficile capire quanta inflazione c’è adesso. Certo, ci sono le statistiche ufficiali, ma queste sono sempre meno tarate sulla realtà. In primo luogo i funzionari che raccolgono mensilmente i dati non escono più dal loro ufficio (o dalla loro casa) e si affidano ai prezzi di catalogo e a qualche telefonata sul campo senza possibilità di verifica. In secondo luogo, ancora più importante, i panieri dei beni su cui si raccolgono i dati sono ancora quelli pre-Covid e assegnano un peso rilevante a cose e servizi che non si usano quasi più, come i voli aerei, i pasti fuori casa, spettacoli e concerti e notti in albergo e assegnano lo stesso peso di prima ai pasti in casa, sui quali l’inflazione è alta, sia a monte (per il forte rialzo delle derrate agricole) sia a valle. Accanto a questo, naturalmente, ci sono voci che costano meno per effetto di liquidazioni e saldi, ma l’effetto complessivo, tenuto conto dell’ampia liquidità a disposizione delle famiglie nei paesi che hanno varato politiche di sussidi, è probabilmente un’inflazione più alta di quella ufficiale.

La fine della pandemia, se e quando la vedremo, porterà a un aumento dell’offerta, ma anche a un aumento ancora più forte della domanda. L’abbondanza strutturale di offerta aiuterà ad assorbire lo squilibrio, ma le tensioni al rialzo sui prezzi si faranno comunque sentire, prima con aumenti temporanei legati alla riapertura e poi con una crescita lenta ma strutturale.

Non sono problemi per l’oggi, si dirà, ma il dibattito nella Fed su come reagire è già iniziato. Si aprono tre strade, una classica, una distopica e una intermedia. La strada classica è quella di un ripristino graduale della normalità monetaria, con tassi reali che risalgono almeno a zero, quantomeno sulla parte lunga della curva. La seconda è quella di un’inflazione che sale e di una Fed che reagisce in modalità MMT inchiodando sui livelli attuali tutta la curva, aumentando, se serve, gli acquisti di titoli con creazione di base monetaria. È distopica, come nota Michael Wilson di MacroStrategy, perché distorce sempre di più il mercato, crea caduta del dollaro, bolle e turbolenza e richiede interventi sempre più estesi da parte di governi e banche centrali. La terza strada, la più probabile, è una via intermedia in cui la Fed mantiene a zero i tassi a breve e autorizza i tassi a lungo ad accompagnare l’inflazione al rialzo ma senza mai raggiungerla, mantenendo cioè negativi anche i tassi reali a lungo.

Quanto all’Europa, l’euro in questi mesi ha corretto la sua sottovalutazione, ma adesso comincia la parte più difficile da accettare per la Germania. Per evitare un ulteriore rafforzamento dell’euro, infatti, bisogna che il differenziale rispetto ai tassi americani torni ad allargarsi e questo, a sua volta, richiede altri massicci interventi di Qe da parte della Bce. La politica fiscale complessiva (a livello nazionale e di Unione) non potrà dal canto suo discostarsi troppo da quella americana, fortemente espansiva. Fare diversamente significherebbe riprodurre gli errori dell’austerità del 2011-12, ovvero fare normalizzazione fiscale in una fase di euro forte, un doppio colpo difficile da assorbire anche in un contesto di ripresa ciclica globale.

Se l’Europa seguirà gli Stati Uniti sulla loro strada, anche se più timidamente, le valute migliori da tenere in portafoglio saranno quelle dei Paesi che seguiranno strade più classiche di normalizzazione monetaria, come quelle asiatiche. Solo in Asia si riusciranno ad evitare o a limitare nei prossimi anni quei rendimenti reali negativi che penalizzeranno gli obbligazionisti in Europa e in America e si avrà come bonus, ancora per qualche tempo, un ulteriore apprezzamento del cambio.

In pratica, quindi, un portafoglio globale dovrebbe prepararsi a mantenere in Asia (e nei migliori emergenti) la sua componente obbligazionaria, in Europa le azioni cicliche e in dollari la parte più aggressiva e le materie prime. In questo modo il portafoglio potrà difendersi sia nel caso probabile in cui il dollaro resti il sole al centro del sistema monetario mondiale, sia nel caso in cui la Cina diventi il nuovo sole emergente e al dollaro resti il titolo di sole emerito in caso di MMT aggressiva.

L’importante, nel prossimo decennio, sarà mantenere una forte quota di portafoglio in beni reali. La famiglia di Ludwig Wittgenstein era la seconda più ricca dell’impero austro-ungarico. Quando l’impero crollò fece in tempo a salvare la sua fortuna comperando terreni all’estero mentre in Austria infuriava l’inflazione. Per potersi concentrare sulle sue riflessioni filosofiche Wittgenstein donò i suoi beni ai fratelli e andò a fare sotto falso nome il maestro elementare in un paesino, il giardiniere e l’infermiere. Ma questa è un’altra storia.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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