Il futuro delle utility passa dal “low carbon”

A cura di Peter Cody e Tatiana Spineanu, Us e European Investment Grade Credit Research di Pgim Fixed Income (gestore delegato di Pramerica Sgr)

Il crescente dibattito sulla necessità di continuare a utilizzare il carbone fossile nella generazione di elettricità e l’impatto di quest’ultimo sul cambiamento climatico ha messo in risalto le implicazioni derivanti dagli investimenti in utility ad alta intensità di carbone. Nonostante una riduzione significativa in tempi recenti, il carbone termico continua a ricoprire un ruolo importate nel settore delle utility di Stati Uniti ed Europa. Diversi fattori – tra cui l’evoluzione della normativa, il cambiamento di dinamiche sui mercati delle materie prime, il calo dei costi di generazione di energia da fonti rinnovabili e le crescenti preoccupazioni ambientali – influenzano i costi della produzione di energia tramite carbone termico.

Anche a fronte dei recenti miglioramenti a livello di emissioni di gas che contribuiscono all’effetto serra (Ghg, greenhouse gas), tra dismissioni di centrali a carbone, nuovi obiettivi normativi, adozione di fonti rinnovabili e miglioramenti dell’efficienza, il settore dell’energia elettrica rimane il primo responsabile di emissioni di Ghg nell’Unione europea e il secondo negli Stati Uniti. Pertanto, gli sforzi per ridurre le emissioni di questi gas si concentrano spesso sull’uso del carbone, dato che la sua intensità di carbonio è circa doppia rispetto a quella del gas naturale.1

Il contesto normativo continua a influenzare i costi della produzione di energia attraverso il carbone. Ad esempio, l’Ue ha lanciato nel 2005 uno strumento, chiamato Emission Trading System (Ets), che pone un limite alle emissioni di gas serra e prevede la possibilità, per le società meno virtuose, di acquistare crediti per queste emissioni da realtà che hanno un impatto minore sull’ambiente. L’ottenimento a fronte di un pagamento di questi crediti ha reso le centrali a carbone, e in particolare quelle meno efficienti, molto onerose da gestire e spesso incentiva le utility a passare al gas naturale come fonte di combustibile. In aggiunta a ciò prevediamo che le azioni che l’Ue adotterà nell’ambito del quadro per il clima e l’energia 2030-2050 velocizzeranno la transizione energetica nel Vecchio Continente.

L’Ue prevede di eliminare quasi completamente le emissioni di CO2 entro il 2050, e la maggior parte dei membri ha annunciato l’intenzione di ridurre gradualmente l’utilizzo del carbone, con alcuni grandi Paesi (Francia, Regno Unito, Italia e Svezia) che mirano ad anticipare questa esclusione a partire dal 2025. Spesso però mancano dettagli precisi riguardo alle modalità (ad esempio la data di chiusura delle centrali termiche). La Germania ha recentemente annunciato una stima di chiusura nel periodo 2035-2038, mentre la Polonia non ha ancora definito un piano di esclusione del carbone e prevede che ancora nel 2030 il 60% della propria produzione di energia sarà legata a questa risorsa. Altrettanto frammentato è il quadro degli Stati Uniti, in cui il settore è soggetto alla legislazione statale e non a quella federale. Gli Stati più attenti all’ambiente sono stati in grado di fissare obiettivi di produzione di energia rinnovabile progressivamente più elevati nonostante i tentativi a livello federale di preservare l’utilizzo del carbone. Nei casi più virtuosi, tra cui figurano California, Nevada, New Mexico, Washington e Hawaii, è stato fissato uno standard di portafoglio rinnovabile (RPS, renewable portfolio standards) che prevede il 100% di energia rinnovabile entro il 2050.2

Le singole utility riflettono i passi concreti del settore verso la decarbonizzazione. In Europa, la maggior parte delle aziende ha ricentrato le proprie attività su reti di distribuzione di qualità superiore, produzione di energia rinnovabile attraverso sovvenzioni statali e servizi a contratto, riducendo al contempo l’esposizione alle attività basate sull’estrazione di materie prime. Fino al 2012, il settore delle utility europee ricavava circa la metà del proprio Ebitda da business quali la generazione termica, l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas, l’estrazione mineraria; stimiamo che questa quota sia stata in media solo un quarto nel 2018.

L’impatto “green” sulle aziende

Il passaggio ad attività a più ridotto impatto di carbonio è evidente anche nei risultati delle aziende. In una recente presentazione agli investitori, Enel ha sottolineato che “la decarbonizzazione migliora i margini”, dimostrando che il costo livellato dell’elettricità prodotta con l’energia solare garantisce un margine superiore del 20% circa rispetto alla generazione termica.

Anche se praticamente tutte le aziende europee stanno implementando strategie di transizione energetica, da un’analisi interna emerge che il ritmo del cambiamento varia ampiamente. Ad esempio, Iberdrola e Orsted hanno notevolmente migliorato il loro mix di generazione e ridotto l’intensità di Co2, mentre Rwe, Cez o Enbw mantengono portafogli a Co2 più elevata.

Per quanto le utility statunitensi in genere siano in ritardo rispetto alle loro controparti europee in termini di generazione di energia a impatto zero, numerosi fattori di mercato, come il gas naturale più economico e le sovvenzioni per la produzione di energia da fonti rinnovabili (eolico e solare), continuano a rendere la produzione di energia attraverso l’uso del carbone sempre più costosa e incentivano le aziende a modificare le sorgenti da cui generare energia.

La decarbonizzazione del settore delle utility continuerà probabilmente nel prossimo futuro, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, ma rimane molto difficile stabilire se il processo sarà abbastanza veloce da placare le preoccupazioni dell’opinione pubblica in merito alle emissioni di carbonio di questo settore.

Noi di Pgim Fixed Income crediamo che l’integrazione dei criteri ESG nel processo di investimento possa permettere di identificare società con vantaggi competitivi che si rifletteranno positivamente sui rendimenti dell’investimento stesso, e per quanto riguarda il settore delle utility, crediamo che l’elemento più importante sia quello ambientale. Sebbene la correlazione tra l’impronta di carbonio e gli spread del credito – ad oggi – sia scarsa, nel nostro processo di selezione bottom-up prestiamo comunque particolare attenzione a quelle società con un’impronta ambientale minore o per cui si prospetta un’importante riduzione delle emissioni nel prossimo futuro; questo perché tra due obbligazioni dai rendimenti equiparabili emesse da due diverse società, il titolo il cui emittente ha un’impronta di carbonio inferiore offre una sorta di assicurazione nel caso in cui il mercato inizi a chiedere uno spread più elevato per le realtà che hanno un maggiore impatto sull’ambiente. Allo stesso modo, per le società con un’impronta di carbonio superiore, richiediamo un premio sullo spread del credito per compensare i rischi legati a una possibile carbon tax o a costi che queste si potrebbero trovare a sostenere in futuro, ad esempio a causa di una modifica nella normativa.

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