Il gioco degli specchi dell’economia statunitense

a cura di DeAWM

Dopo un breve respiro, i mercati finanziari sono tornati a registrare un forte calo che ha portato il Nasdaq vicino ai minimi raggiunti lo scorso 20 gennaio. La volatilità resta elevata e non pochi strategist sono stati costretti a rivedere i target di fine anno dei vari indici azionari: un’ondata di revisioni al ribasso così presto nel corso d’anno non avveniva dallo scoppio della guerra in Iraq nel 2003. Non solo: altro dato interessante da notare, secondo Bloomberg, sta nel fatto che la dispersione di target tra i vari strategist, vale a dire 325 punti rispetto al target medio per l’indice S&P500 di 2175 a fine anno, è la più alta dal 2012.

L’ambiguità dei dati registrati nelle ultime settimane non può che contribuire all’incertezza e alla volatilità che stiamo vivendo sui mercati finanziari globali. Cominciamo dal dato ISM manifatturiero in USA: la produzione industriale, ovviamente, è in questo contesto l’anello più debole della Corporate America, ed effettivamente l’indice, a quota 48,2 a gennaio, segnala un rallentamento, ma è in miglioramento dal 48 di dicembre.

Più preoccupante è il calo dell’indice non-manifatturiero, che dovrebbe rappresentare la parte più forte dell’economia statunitense: pur segnalando un’espansione, l’indice è a quota 53,5, ben sotto le attese (55,1) e il dato di dicembre (55,8). Un altro indicatore da tenere sott’occhio viene dalla produttività, che è calata del 3% annualizzato nel quarto trimestre del 2015, il che non lascia ben sperare sulle prospettive di crescita statunitense quest’anno: confermerebbero questa tesi l’accumulo di scorte, il calo negli investimenti e il deterioramento dei fondamentali non solo nel settore oil&gas.

Intanto, secondo un’indagine Fed, le banche statunitensi hanno cominciato a rendere più restrittiva l’erogazione di prestiti e mutui. Questi dati, se confermati nel mese in corso e a marzo, sono più coerenti con una crescita annualizzata attorno all’1%.

Ma veniamo al dato più atteso della settimana, ovvero l’Employment Report. Anche in questo caso, gli ottimisti ed i pessimisti difficilmente hanno cambiato la loro visione: i numeri pubblicati si adattano bene ad entrambe le scuole di pensiero. Gli Stati Uniti hanno aggiunto 151.000 nuovi occupati ex agricoltura nel mese di gennaio: oltre ad essere circa il doppio del livello “di sostentamento dell’occupazione” (circa 75.000), è comunque un dato interessante visto che negli ultimi due mesi sono stati creati 413.000 nuovi posti di lavoro ex agricoltura (206.500/mese in media contro 228.000/mese nell’intero 2015).

Altro punto interessante viene dal fatto che cala il tasso di disoccupazione a 4,9% con un aumento del tasso di partecipazione (62,7%), entrambi segnali positivi. Infine, ultimo dato positivo viene dall’aumento medio dei salari orari, pari a 0,5% nel mese (tra i cinque maggior aumenti mensili degli ultimi dieci anni) e 2,5% sull’anno: questo dato conferma le evidenze qualitative che vari distretti Fed avevano segnalato nel recente Beige Book, in cui si segnalava una crescente carenza di lavoro qualificato che costringeva le aziende a dover rilanciare i salari dei lavoratori più qualificati. In definitiva, l’Employment Report conferma che il mercato del lavoro resta l’area macro più sana nell’economia statunitense, e che la Fed si trova oggi nel difficile ruolo di dover prendere atto di questo, ma di dover ancora attendere segnali positivi sul tema dell’inflazione. La scorsa settimana i mercati futures sono arrivati a segnalare nessun rialzo tassi nel 2016: tuttavia, dopo i dati sull’occupazione, i mercati futures stimano ora un solo rialzo tassi alla riunione del 14 dicembre, con probabilità 53%.

La scorsa settimana il Presidente Fed di New York William Dudley ha tenuto un tono molto cauto sull’andamento dei mercati, segnalando che la Fed non può ignorare il fatto che le condizioni finanziarie si stiano deteriorando: questa settimana è il turno di Janet Yellen in persona, con le testimonianze alla Camera dei Rappresentanti (mercoledì) ed al Senato (giovedì). Yellen dovrà essere in grado da un lato di rassicurare i mercati (e gli strategist citati prima) sull’andamento dell’economia statunitense, segnalando però un aumento dei rischi e dunque la necessità di un approccio prudente da parte della Fed nel decidere se rialzare o no i tassi, un po’ come ha già fatto la scorsa settimana la Bank of England, dove è tornata l’unanimità nel voler mantenere i tassi costanti, dopo che nelle scorse riunioni Ian McCafferty preferiva già che cominciasse il ciclo di rialzo.

L’incertezza sulle mosse della Fed ha già portato i suoi effetti sul cambio Euro/Dollaro, che ha rotto il trading range molto stretto che aveva intrapreso da inizio anno, portandosi fino a 1,125 per poi rientrare in area 1,115. Attualmente il mercato delle opzioni resta posizionato per un ulteriore apprezzamento dell’Euro, ma su queste scommesse pesano due rischi: il discorso di Yellen da un lato, e la promessa di Draghi dall’altro. Di certo l’indebolimento del Dollaro, ora circa 3,3% meno caro rispetto ai massimi di inizio dicembre scorso, ha portato un respiro di sollievo nelle valute emergenti e nelle materie prime, il che ha portato a sua volta un movimento estremo di copertura delle posizioni corte sul settore mining.

 

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