Il rallentamento dell’Eurozona rischia di mettere in stallo la Bce

A cura di Alessandro Tentori, CIO AXA Im Italia

Inizialmente abbiamo assistito a un calo dei consumi di energia dovuti all’inverno mite a inizio 2018. Poi ci sono stati gli scioperi in Francia. Più avanti, l’industria automobilistica tedesca ha faticato ad adattarsi ai nuovi standard per le emissioni e la secca del fiume Reno ha ostacolato la produzione del settore chimico.

Non vanno dimenticate inoltre l’incertezza politica in Italia, che ha prodotto un inasprimento delle condizioni finanziarie, e il brusco rallentamento della crescita in Cina, che ha fatto diminuire le importazioni alla fine del 2018. Ci sono numerose spiegazioni che portano a minimizzare il rallentamento economico dell’Eurozona dal 3% annualizzato di un anno fa all’1% di oggi.

 

Inflazione “deludente”

Anche l’inflazione core dell’Eurozona è stata deludente, restando ostinatamente intorno all’1% per due anni. È vero, in Germania i salari nominali sono saliti molto e oggi sono oltre il 3%, nonostante la produttività stagnante. Ma le aziende europee finora non sono riuscite a riversare questo incremento dei costi sui consumatori e hanno registrato un calo dei margini di utile. Inoltre, le aspettative inflazionistiche stanno diminuendo, sia per le famiglie sia per le aziende, a indicare che l’inflazione persistentemente bassa sta ancorando le previsioni degli agenti economici su livelli inferiori.

L’inflazione e il divario tra produzione effettiva e potenziale, che è leggermente positivo, al +0,6%, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Commissione Europea, e oltre il 2% secondo gli indici delle imprese1, potrebbero giustificare un aumento dei tassi di interesse. Tuttavia, le dinamiche sfavorevoli segnalano un possibile ritardo, che potrebbe bloccare il processo di normalizzazione e mettere fine all’espansione economica globale. Secondo noi, le probabilità di uno stallo da parte della Banca centrale europea (BCE) salgono al 40%. In tale scenario, la BCE non ha l’opportunità di innalzare i tassi prima della prossima ripresa ciclica e i tassi di interesse resteranno dunque sui livelli attuali (-0,4% per il tasso sui depositi) fino al 2022. A fronte di tali sviluppi, il rendimento dei Bund decennali resterebbe sullo 0,1% fino alla fine del 2020, col rischio che la mancanza di garanzie faccia scendere gli yield in territorio negativo.

 

Tassi di interesse ancora bassi

Qualora i tassi di interesse restassero bassi più a lungo continuerebbero a contenere il margine d’interesse delle banche, mentre svanirebbero molti dei fattori positivi derivanti da tale scenario (costo più basso del rischio, plusvalenze di capitale una tantum). Effettivamente, quando la BCE ha spinto il tasso sui depositi in territorio negativo con un nuovo stimolo monetario nel 2014, pochi membri del Consiglio direttivo si aspettavano che sarebbe rimasto su tale livello per altri cinque anni e, pertanto, sono sostanzialmente rientrate le preoccupazioni per gli effetti negativi. Altri tre anni di tassi di interesse negativi potrebbero però gravare sulla redditività delle banche, riducendo la loro propensione a concedere credito, un fenomeno teorizzato da Markus Brunnermeier come “tasso di interesse inverso”2.

La luce cinese in fondo al tunnel

Attualmente, tale scenario di rischio resta appunto un rischio. Lo sviluppo più probabile, secondo noi, è un’accelerazione sequenziale dell’attività economica nell’Eurozona, rafforzata in particolare dalla crescita del Pil in Germania dallo 0% attuale all’1,4% annualizzato nei prossimi trimestri. Oltre alla stabilizzazione a breve termine che prevediamo sulla base dei risultati incoraggianti dei sondaggi tra le imprese dell’Eurozona, intravediamo anche tre fattori principali che sosterranno la domanda nel corso del 2019:

  • La maggior parte degli stati membri dell’Eurozona, se non tutti, ha allentato la politica fiscale inizialmente come risposta al malcontento popolare, ma poi in un modo anticiclico che piace ai mercati;
  • Il prezzo del petrolio è sceso molto negli ultimi tre mesi. Il costo di un barile di Brent è diminuito da una media di 75 dollari nel 2018 (e di oltre 80 dollari a ottobre) ai 65 dollari di oggi. Assisteremo dunque a una convergenza dei tassi di inflazione complessiva e inerziale che dovrebbe contribuire a far aumentare il potere di acquisto e ad alimentare la domanda locale nell’Eurozona;
  • Un contributo importante al rallentamento precedente, come abbiamo spiegato, è arrivato dalla Cina e più in generale dai Paesi emergenti in Asia. È incoraggiante che abbiamo finalmente iniziato a rilevare i primi segnali positivi dell’allentamento politico in Cina (stimoli fiscali e condizioni di credito) sull’economia reale, con un deciso rimbalzo della crescita del credito a gennaio.

Le autorità cinesi stanno intervenendo in modo proattivo. E dovrebbero continuare su questa strada. Riteniamo probabili nuove riduzioni delle imposte e dell’IVA per le piccole e medie imprese, oltre al proseguimento delle politiche di sostegno per la spesa delle famiglie e per le infrastrutture. La banca centrale cinese sta inoltre adottando una politica monetaria più proattiva, incoraggiata in parte dalle minori pressioni sullo yuan e quindi sui deflussi di capitale. Nel corso dell’anno ci aspettiamo altri due o tre tagli delle riserve obbligatorie delle banche, e il prossimo potrebbe arrivare a inizio marzo. Se si giungesse a un accordo commerciale con gli Stati Uniti, che sarebbe un fattore positivo per il RMB, e l’economia locale continuasse a indebolirsi, non potremmo escludere tagli ai tassi di interesse di riferimento (e ad altri tassi del mercato).

Quando, nel primo semestre dell’anno, il calo degli scambi globali e la contrazione delle condizioni finanziarie inizieranno a contagiare l’economia mondiale, i Paesi in via di sviluppo registreranno un rallentamento economico dopo la crescita positiva dell’ultimo trimestre del 2018. La domanda locale dovrebbe resistere ancora, grazie alle politiche fiscali che favoriscono i consumi in vista delle elezioni previste in diversi Paesi, soprattutto nei Paesi emergenti in Asia (India, Indonesia, Filippine), e fare da cuscinetto alla decelerazione delle esportazioni. Nell’emisfero occidentale, dopo anni di crescita stagnante, l’economia del Brasile dovrebbe accelerare grazie alle riforme volute dalla nuova amministrazione. I Paesi più in difficoltà, come Turchia e Argentina, sono in recessione ma stanno per toccare il fondo ed è in corso un ribilanciamento dell’economia. Nel complesso, crediamo che le economie emergenti abbiano le potenzialità per accelerare nei prossimi trimestri e nel corso del 2020.

 

Asset allocation: ulteriore riduzione della propensione al rischio, posizione neutrale in azioni

Nella consapevolezza degli scenari di rischio e dopo un ottimo inizio d’anno per gli strumenti più esposti al rischio (le azioni USA hanno guadagnato il 10% da inizio anno), abbiamo ridotto ancora la nostra propensione al rischio mantenendo sostanzialmente neutrale l’asset allocation tattica nelle diverse asset class. Anche se confermiamo il nostro scenario di base caratterizzato da una stabilizzazione della crescita globale nel breve termine con la possibilità di un rimbalzo verso la fine di quest’anno, il rallentamento dell’attività, abbinato alla correzione della maggior parte dei premi per il rischio, invita alla prudenza nei prossimi tre mesi.

Torniamo inoltre a una posizione neutrale (da sottopesata) in titoli di Stato core in euro nonostante il basso livello attuale dei rendimenti obbligazionari. Questo periodo di debolezza ciclica dovrebbe far stabilizzare o persino scendere i rendimenti reali, mentre il tasso di breakeven potrebbe diminuire ancora rispetto all’inflazione complessiva. Quindi, il potenziale rialzo dei rendimenti obbligazionari ci sembra limitato nei prossimi tre mesi, mentre una posizione al ribasso in obbligazioni risulta costosa.

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