In alta quota servono esperienza e buona attrezzatura. Anche sui mercati

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

Si procede di buon passo e ci si avvicina velocemente alla parete finale che ci porterà alla vetta, al momento avvolta dalle nuvole. Azioni cicliche, azioni difensive, oro, oggetti da collezione, crediti forti e fragili, tutti in cordata. Si cammina ordinati cantando, anche se l’ossigeno è rarefatto, e l’umore è eccellente, senza che ci siano sbavature di scomposta euforia.

I permabear (i gufi) si sono fatti ombrosi e taciturni. Si limitano a sottolineare le fragilità strutturali (la deglobalizzazione ormai avviata, i pochi investimenti produttivi, i settori sotto pressione pesante come auto ed energia, l’indebitamento crescente delle società che finanziano i buy-back dei loro titoli, la bassa crescita, i margini sotto pressione), i rischi politici (le elezioni americane) e geopolitici, la vecchiaia del ciclo economico e i multipli elevati. L’anno scorso, dicono, le borse sono salite del 30 per cento. Aggiungiamoci un 10 probabile nei primi mesi del 2020 e arriviamo al 40. Nel frattempo, però, gli utili non si sono mossi.

Dalla cordata arrivano espressioni di educata ironia nei confronti dei gufi. Li si invita ad alzare lo sguardo e a osservare i numerosi elicotteri delle banche centrali che volteggiano poco sopra gli alpinisti per garantirne la sicurezza. Dagli elicotteri viene continuamente lanciata liquidità calda che scioglie il ghiaccio, 3 miliardi al giorno contando solo Fed e Bce. I gufi sono invitati anche a guardare poche decine di metri sotto la cordata, dove i tecnici delle banche centrali hanno steso robuste reti di protezione. Il capo ingegnere Clarida, della Fed, informa che le reti, inizialmente annunciate come una misura temporanea di sicurezza, non verranno tolte nemmeno in caso di riaccelerazione dell’economia. E in caso di ripresa dell’inflazione? Verranno lasciate comunque (i tassi non aumenteranno). In ogni caso, dice Clarida, l’inflazione non arriverà e se ci sbagliamo saremo i primi a darle il benvenuto.

Tra gli alpinisti i più vecchi, quelli che ne hanno viste tante, sanno che la parte più golosa è proprio la scalata della parete finale, quando in breve tempo si superano grandi dislivelli, e non vogliono rinunciarvi. Sanno anche, però, che la montagna non va mai presa sottogamba, perché è capace di essere terribile. Può alzarsi un vento improvviso che può fare cadere gli elicotteri come mosche. Una frana o una valanga possono travolgere le reti di protezione, anche le più robuste.

È vero, dicono, di rischi noti ce n’è solo uno, il voto americano di novembre, ma da solo basta e avanza. Sanders e Warren possono essere vento, frana e valanga, almeno per le borse e (soprattutto Sanders) per il dollaro. Gli altri candidati democratici saranno comunque costretti a scavalcarsi tra loro a sinistra, prima della nomination per intercettare i delegati radicali nel caso Sanders o Warren non siano nominabili e nella fase finale della campagna per mobilitare la base. Di qui a novembre basterà un sondaggio sfavorevole a Trump (e certamente ce ne saranno) per popolare di tasse e reregulation i sogni dei mercati. Di fronte all’ipotesi di una rottura di paradigma nel modello americano, anche una probabile riaccelerazione dell’economia nella seconda parte dell’anno e una Fed benevola non basteranno a ridare tranquillità.

E non ci sono solo i rischi noti, dicono ancora i vecchi, ma anche quelli ignoti, potenzialmente ancora più insidiosi. Abbiamo appena avuto un esempio con l’Iran, che nessuno aveva previsto. È finita benissimo, per ora, e non ci sarebbe stata comunque nessuna terza guerra mondiale. Se però andiamo a pensare ai danni che l’interminabile attesa di un conflitto locale e circoscritto produsse nei mercati prima delle due guerre del Golfo (1990 e 2002-2003) vediamo che con queste cose non si scherza. E anche senza guerra guerreggiata, un livello di tensione intermedio fatto di provocazioni e rappresaglie anche modeste sarebbe stato sufficiente a costituire per i mercati il tormentone del 2020, sostitutivo di quello con la Cina che si chiuderà la settimana prossima con la firma dell’accordo alla Casa Bianca.

E non dimentichiamo completamente che l’Iran ha promesso 13 azioni di rappresaglia, e finora ne ha realizzata solo una. Nello sciismo duodecimano il 13 è un numero escatologico e messianico. Il tredicesimo Imam, il Mahdi, verrà alla fine dei tempi per la battaglia finale contro il Male, incarnato oggi dal Grande Satana americano. Certo, l’Iran è in questo momento frastornato, ma la strategia rimane intatta (l’atomica per evitare la fine dell’Iraq e l’egemonia su tutto il Grande Levante da Kabul a est fino a Damasco a ovest e ad Aden a sud). L’Iran gioca su tempi ancora più lunghi di quelli cinesi. L’America, come la Gran Bretagna imperiale, ha solo una strategia di divide et impera.

Come fare allora per continuare a scalare la montagna del rialzo degli asset finanziari limitando i rischi fatali? Si può diversificare il portafoglio e tenere ad esempio il 60 sui temi di consenso (azionario in primo luogo), il 10 in liquidità e il 30 su temi alternativi come l’oro, i titoli del Tesoro americani, il franco svizzero e lo yen. Non è detto che il 60 e il 30 siano inversamente correlati in termini di performance. In un mondo di liquidità abbondante possono anche fare bene entrambi, come è successo nel 2019. In un mondo sotto pressione, il 30 può attutire e compensare il 60.

Il 60, a sua volta, può essere riorientato almeno in parte verso i mercati meno cari, in particolare l’Asia e gli emergenti, penalizzati fino a ieri dal conflitto commerciale e dalla forza del dollaro. Anche l’Europa non è cara, ma un’eventuale rivalutazione dell’euro nella regione del mondo che più dipende dalle esportazioni, limiterà a un certo punto il potenziale delle borse europee. Dal canto loro, i titoli del settore industrial-militare, per quanto poco Esg, possono avere anch’essi un ruolo da giocare nei portafogli. Dopotutto, la corsa al riarmo è globale ed è destinata ad accelerare nei prossimi anni.

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