Inflazione, le mosse della Fed potrebbero non bastare

A cura di Darrell Spence, Economista di Capital Group

Jerome Powell ha annunciato l’adozione da parte della Federal Reserve di una politica di “average inflation targeting”, un cambiamento significativo rispetto all’approccio di determinazione dei tassi di interesse adottato dalla banca centrale negli ultimi decenni. Questo cambiamento implica che quando l’inflazione si attesta al di sotto del target del 2%, la Fed cercherà di superare questo valore negli anni successivi, essenzialmente lasciando spazio a un’inflazione più elevata.

La mossa della Fed, che mira a sostenere le aspettative di inflazione delle famiglie e delle imprese, può effettivamente portare a un’inflazione Cpi (Consumer Price Index) significativamente più alta? La risposta è molto probabilmente “no”, o almeno “non ancora”, anche se ciò non esclude la possibilità di inflazione sui prezzi degli asset. Anche se gli Stati Uniti hanno varato consistenti misure di stimolo di natura monetaria e fiscale in risposta alla pandemia di Covid-19, i fattori fondamentali che generano l’inflazione non si stanno sviluppando in maniera tale da far pensare che essa si muoverà in modo sostanziale verso l’alto nei prossimi trimestri. Storicamente, periodi prolungati di inflazione elevata sono stati l’eccezione, non la norma.

I cinque fattori spesso citati come determinanti per l’aumento dell’inflazione

1. Politica monetaria accomodante e crescita di un eccesso di offerta di moneta. Un aumento dell’offerta di moneta non comporta necessariamente prezzi più alti se la velocità del denaro – il numero di volte che un dollaro viene speso – diminuisce. L’aumento dell’offerta di moneta e la diminuzione della velocità si compensano a vicenda, limitando l’impatto sui prezzi e sull’attività economica reale. Questa velocità è diminuita con l’aumento della domanda di denaro da parte del settore privato. Ciò è dovuto al calo delle aspettative di inflazione, ai tassi di interesse più bassi che hanno ridotto il costo opportunità di detenere liquidità, all’incertezza e, fino a poco tempo fa, alla diminuzione dell’indebitamento. Con la velocità in calo, l’aumento dell’offerta di moneta non genera un’attività economica più sostenuta.

2. Stimolo fiscale, domanda in eccesso, elevato utilizzo delle risorse e un differenziale positivo in termini di output. La politica fiscale statunitense è stata molto espansiva negli ultimi tempi. Lo scopo di quest’ultima è però quello di sopperire a un significativo crollo della domanda piuttosto che di far crescere la domanda in un’economia in piena occupazione. Di conseguenza, l’attuale livello di utilizzo delle risorse è appena al di sotto della soglia di neutralità, il che non suggerisce pressioni inflazionistiche o deflazionistiche significative. Inoltre, se non si prevede un ulteriore round di stimoli, è probabile che l’utilizzo delle risorse diminuisca nuovamente, creando una maggiore pressione al ribasso sull’inflazione.

Le riserve delle banche commerciali depositate presso la Fed, cresciute a seguito del Qe, fanno parte della base monetaria, ma non dell’offerta di moneta. Per avere un impatto sull’offerta di moneta e sull’attività economica, le riserve devono raggiungere l’economia reale attraverso il prestito bancario. Si è registrata una ripresa in questo campo negli ultimi tempi, ma ciò rappresenta un utilizzo precauzionale delle linee di credito e un’estensione dei prestiti del Paycheck Protection Program piuttosto che un’espansione della domanda. Le indagini primarie sull’attività di fido condotte dalla Fed mostrano addirittura un forte inasprimento degli standard di credito da parte delle banche commerciali, così come una minore domanda di prestiti. Infine, in un regime in cui la Fed paga gli interessi sulle riserve in eccesso, le banche sono ancora più incentivate a mantenere tali riserve presso la Fed.

3. Rischio di uno “shock dei prezzi”. La pandemia, in combinazione con la guerra commerciale, ha sconvolto le catene di approvvigionamento, con il conseguente rischio che si verifichi uno “shock dei prezzi” per alcuni beni e servizi creando così un’inflazione da costi, come accaduto negli anni Settanta e Ottanta negli Stati Uniti quando lo shock dei prezzi dell’energia ha portato ad un’inflazione elevata e duratura. Tuttavia, è alquanto difficile immaginare un aumento dei prezzi di un’entità simile (184% nel 1973-1974 e un ulteriore 291% entro il 1980) di un servizio o di una materia prima, o che interessi più servizi e materie prime, da risultare così pervasivo nell’economia USA come lo era il petrolio in quegli anni. L’emergere degli Stati Uniti come produttore di scisto potrebbe anche smorzare questo fattore di oscillazione.

4. Aspettative di inflazione e cambiamento del regime di inflazione. L’esperienza degli anni Settanta mette in evidenza l’importanza di mantenere sotto controllo le aspettative. Nel regime di inflazione moderata in cui ci troviamo, il ruolo delle aspettative di inflazione potrebbe assumere un peso maggiore rispetto al passato. La Fed ha a lungo temuto che tali aspettative scendessero al di sotto dell’obiettivo del 2% e più recentemente si dirigessero verso l’1,5%. Per questo motivo, l’annuncio di Powell di un “average inflation targeting” non sorprende. Non è chiaro se si tratterà di un cambiamento incrementale, o più dirompente, o se avrà successo anche in assenza di inflazione reale. Tuttavia, il fatto che la Fed stia cercando, in maniera più aggressiva, di aumentare le aspettative di inflazione ha il potenziale per generare una crescita effettiva dell’inflazione.

5. Fattori strutturali. I fattori strutturali dell’economia sono probabilmente i più difficili da calibrare. L’economia statunitense è in costante evoluzione, e questi cambiamenti possono alterare in modo significativo l’andamento dell’inflazione. Storicamente una crescita dell’inflazione è stata associata ad una minore crescita della produttività perché porta ad un aumento dei costi unitari del lavoro. Quasi tutte le recessioni dal secondo dopoguerra in poi sono state seguite direttamente tuttavia da una rapida ripresa della crescita della produttività con un calo dei costi unitari del lavoro nei due anni successivi. Se questo meccanismo si ripetesse nel ciclo attuale, si avrebbe un periodo di due anni di inflazione salariale relativamente bassa.

Un’ultima potenziale fonte di inflazione non menzionata nelle cinque “cause” precedenti è la flessione del dollaro Usa, poiché le variazioni del valore del biglietto verde influenzano in modo piuttosto diretto i prezzi delle importazioni statunitensi. Tuttavia, l’economia statunitense è meno esposta alle importazioni rispetto alle economie di molti altri paesi, con circa il 16% del Pil, quindi sarebbe necessario un calo piuttosto significativo della valuta per avere un impatto sul tasso di inflazione complessivo degli Stati Uniti.

Indubbiamente, le analisi sugli andamenti storici non contengono alcun periodo simile a quello attuale. Tuttavia, nel breve termine, la pandemia sembra esercitare una pressione al ribasso sull’attività economica nonostante gli sforzi fiscali e monetari per sostenerla. Questo sembra un ambiente molto difficile in cui creare inflazione. Sarà importante monitorare l’incidenza degli stimoli fiscali e monetari quando usciremo dalla situazione attuale. Una politica che rimanga accomodante – come lo è stata finora – in un’economia che si sta “normalizzando” ha un certo potenziale di generare inflazione.

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