Italiani, poveri ma ricchi

Di Alfred Hoffmann, Financial Planner Strategist & Educator, Avalon Investment Research

Come si sentono gli italiani? Poveri in canna. Giornali e tv ne rappresentano la miseria triste e sconsolata. I saldi di luglio? Malissimo, negozi vuoti. Le vacanze? Tutti a casa. Il Natale? Con i tuoi e anche Pasqua, in famiglia. Capodanno? Cenetta, niente cenone. Se le cose stanno così, non stupisce che sia stato dato poco rilievo all’ultima indagine condotta dal Centro Einaudi per Intesa Sanpaolo: i suoi risultati, infatti, smentiscono il senso comune.

Gli italiani sono più ricchi dei tedeschi, dei francesi, degli olandesi. Ma come, non siamo l’unico paese europeo il cui reddito prò capite è inferiore a quello del 2007, cioè antecrisi? Lo siamo. Non è vero che dividendo il prodotto annuo per la popolazione scendiamo al dodicesimo posto nell’Unione europea e al 33esimo nel mondo secondo il Fondo monetario internazionale, mentre anche la Spagna s’avvia al sorpasso dal prossimo anno? Tutto vero, verissimo. La ricchezza, però, non è solo reddito, è anche patrimonio composto da attività liquide e finanziarie, i beni mobili, e attività immobiliari, case e terreni, i beni immobili.

La crisi ha provato a incrinare uno dei tradizionali punti di forza delle famiglie italiane, ovvero la capacita di accumulare attività reali e finanziarie. La ricchezza media è scesa del 5 per cento, poi ha ripreso a crescere dal 2016. Tuttavia, lo stock di ricchezza delle famiglie supera in Italia i 10.700 miliardi di euro, pari a oltre 9,3 volte il reddito disponibile. Nessun Paese del G7 può vantare un rapporto tanto elevato: il dato si ferma a 8 in Francia, a 6,7 in Germania, a 6,4 negli Stati Uniti. Che gli italiani siano più ricchi non solo di quel che appare dalle statistiche ufficiali, ma anche degli americani, dei tedeschi, degli stessi scandinavi, era stato confermato da un sofisticato studio condotto da due economisti della Banca d’Italia, Andrea Brandolini e Silvia Magri, insieme a un loro collega americano, Timothy Smeeding dell’Università del Wisconsin, pubblicato nel 2010.

Le cifre di riferimento, per rendere comparabili i diversi paesi, sono fondate sul data base più accurato che si conosca, quello del Luxemburg Wealth Study che risale al 2002, quindi l’analisi prescinde dagli effetti della lunga recessione. La crisi ha solo modificato le proporzioni, non ha cambiato la sostanza. Il parametro che conta per riclassificare la ricchezza e la povertà è il rapporto tra il reddito disponibile delle famiglie (cioè quel che resta dopo aver pagato imposte, balzelli, contributi, insomma tutto ciò che lo stato preleva dalle nostre tasche) e il valore delle loro proprietà (in beni mobili e immobili) più i risparmi.

Chi non è schiacciato nella tenaglia delle banche e ha un tetto sulla testa, soffre molto meno anche quando perde il reddito e resta disoccupato. Un anziano negli Usa è più affluente in termini di reddito e di ricchezza mobiliare (in azioni, fondi pensione, ecc.). Ma la situazione si rovescia se guardiamo all’insieme dei patrimoni. A parità di potere d’acquisto, cioè senza l’effetto della svalutazione monetaria, l’italiano medio sta nettamente meglio anche dell’americano medio. Del resto, basta girare per le piazze di un borgo toscano e sulle strade di una cittadina nel Midwest per toccare con mano la profonda differenza.

Visto che l’Italia nel suo insieme non sta scivolando sotto la soglia di povertà, anche se la recessione ha provocato un aumento della povertà assoluta (coinvolge il 6,9 per cento delle famiglie) e soprattutto di quella relativa (12,3 per cento le famiglie con uno standard di vita inferiore alla media), le ricette puramente redistributive non sono sufficienti. Il problema è produrre di più e meglio, perché solo così si possono rimpiazzare le munizioni sparate per affrontare la recessione.

Le indagini sulla ricchezza e la sua distribuzione ridimensionano un altro luogo comune: non è vero che la nuova generazione è più povera della precedente; è vero che possiede meno reddito perché lavora meno, ma ha più patrimonio, eredita case, terreni, risparmi, buoni del Tesoro e denaro liquido che nella generazione precedente non c’era. La smentita più importante riguarda la radicata convinzione che l’euro abbia colpito, dimezzato dicono alcuni la ricchezza degli italiani, affermazione mai confermata da nessun dato che rappresenta tuttavia il pilastro della lettura populista della crisi e del paese. E qui la parola passa alla Banca d’Italia che compie indagini pressoché continue sui patrimoni delle famiglie.

L’ultima rilevazione risale al 2015, ma è già sufficiente per verificare quel che è successo dal momento in cui si è deciso di passare all’euro. La nuova moneta europea ha cominciato a circolare nel 2002, la lunga recessione italiana è finita nel 2014 poi è arrivata la lenta e faticosa ripresa. Il valore delle abitazioni, in quei dodici anni, è salito secondo Bankitalia da 3.172 a 4.952 miliardi. Bisogna aggiungere poi le altre attività reali (gioielli, abitazioni non residenziali, ecc.) e si va da 3.788 a 5.848 miliardi, crescono anche le attività finanziarie così che la ricchezza netta passa da 5.954 a 9.642. Altro che dimezzata, negli anni dell’euro è quasi raddoppiata.

La matematica non è tutto, sia chiaro, però non ha alcun fondamento la lettura della crisi e del paese risultata vincente grazie ai persuasori occulti, e non solo a loro. Ha agito infatti una percezione legata, dicono i sociologi, alla perdita di centralità e di ruolo della classe media, tanto che alcuni hanno parlato di proletarizzazione, riesumando una categoria marxista. E poi c’è l’effetto recessione che incide sui guadagni, su quel che si porta a casa ogni mese. E tuttavia, secondo il Centro Einaudi, quasi due terzi degli intervistati dichiara di percepire un reddito sufficiente o più che sufficiente: si tratta del valore più elevato mai registrato dal 2009 a oggi. Aumentano ulteriormente le famiglie in grado di risparmiare. Mentre la quota dei non risparmiatori cala nel 2018 dal 56,6 al 52,7 per cento, i risparmiatori recuperano quasi 4 punti, attestandosi a oltre il 47 per cento.

Ma cos’è allora questa crisi, come cantava Rodolfo De Angelis nel 1933 in piena Grande Depressione? Le perdite ci sono state e tra il 2006 e il 2016 la ricchezza finanziaria si è concentrata, come spiega l’ultima indagine sui bilanci delle famiglie pubblicata in marzo dalla Banca d’Italia. Anche i valori immobiliari sono scesi, sia pure meno che in Spagna, Irlanda, Gran Bretagna. Senonché, da qualche anno a questa parte c’è stato un recupero consistente in Borsa e risalgono anche i prezzi delle case, in modo significativo nelle grandi città.

Dunque, gli italiani stanno di nuovo investendo nel mattone e su questo ha giocato un ruolo fondamentale la politica monetaria della Bce. Il Quantitative easing, in particolare, ha migliorato il benessere dei più poveri. Ma come, non si era sempre detto il contrario? Uno studio degli economisti della Banca centrale europea (Miguel Ampudia, Dimitris Georgarakos, Jiri Slacalek, Oreste Tristani, Philip Vermeulen e Giovanni L. Violante), intitolato “La politica monetaria e la ricchezza delle famiglie”, concentrato soprattutto sui quattro maggiori paesi, Germania, Francia, Italia e Spagna, rimette in discussione l’idea finora prevalsa anche nei dibattiti tra esperti, cioè quella di un Quantitative easing che avrebbe contribuito ad ampliare la disuguaglianza premiando i ricchi grazie all’aumento dei prezzi di titoli di Stato, obbligazioni, azioni e immobili, attività finanziarie e immobiliari possedute soprattutto dai ceti più agiati.

Questo rialzo c’è stato, ma è compensato dalla riduzione dei tassi d’interesse in particolare sui mutui. Ciò ha prodotto un aumento dell’occupazione e del potere d’acquisto, e in generale ha ridotto la diseguaglianza. Non è sufficiente sia chiaro, la divaricazione dei redditi e della ricchezza ha cause diverse, ben più profonde, è incancrenita nella storia, ravvivata dalla cronaca, approfondita dal divario tecnologico, generazionale, demografico. Tuttavia, ancora una volta i dati smentiscono la percezione della realtà.

La distribuzione dei redditi viene misurata per lo più dal coefficiente elaborato oltre un secolo fa, nel 1912, dall’economista italiano Corrado Gini, primo presidente dell’Istituto centrale di statistica, fascista convinto e ricompensato. Secondo l’Istat che ha sempre continuato ad aggiornare quell’indice, già nel 2016 il rapporto tra il quinto della popolazione più povero e il quinto più ricco era tornato ai livelli precedenti la crisi. Ciò significa che l’aumento della divaricazione nei redditi è stato provocato in modo determinante dalla recessione e non dall’accresciuto potere della plutocrazia o da scelte politiche.

Al contrario, le politiche di redistribuzione monetaria attuate dai governi hanno ridotto la diseguaglianza tra redditi guadagnati sul mercato (salari e stipendi) e redditi netti effettivamente percepiti, ha spiegato Giorgio Alleva, l’attuale presidente dell’Istat.

Da parte sua, Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, ha pubblicato un grafico eloquente, mettendo a confronto Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna dall’introduzione dell’euro a oggi. Troviamo maggiore stabilità e minore diseguaglianza in Germania, peggiore la situazione nel Regno Unito, mentre Francia e Italia grosso modo si equivalgono oscillando in funzione del prodotto lordo: più disuguali in tempi di recessione e viceversa. Ciò non toglie che possa essere ritenuto ingiusta la scala di valori attuale e vada cambiata con politiche riformatrici più eque, o magari ribaltata da scelte rivoluzionarie.

Ma non è questo il problema, in discussione è la falsa notizia che la diseguaglianza sia aumentata per le scelte dei governi che hanno preceduto quello del “cambiamento” o per l’esproprio della ricchezza nazionale operato da capitalisti, banchieri e finanzieri, in sostanza il racconto fasullo di questi anni imbastito dal complesso mediatico-ideologico-giudiziario. Possiamo anche dar ragione a Thomas Piketty secondo il quale nei periodi in cui la distribuzione del reddito è più equilibrata, la crescita è più alta, magari ribaltando la sua sequenza logico-storica. Tuttavia, mai si è raggiunto un livello di mistificazione come quello operato dalla propaganda populista.

Andrea Brandolini, ancora lui, ha analizzato cosa è successo in quattro fasi diverse: i due periodi 1989-91 e 1993-95 circoscrivono la crisi valutaria del 1992, mentre i periodi 2004-06 e 2012-14 delimitano la doppia recessione recente. Prima e dopo il crollo della lira nel 1992, si osserva che la quota degli individui poveri è passata dal 13 al 19 per cento, soprattutto per la caduta dei redditi delle persone appartenenti alle classi medio-basse.

Nello stesso periodo, le persone con redditi più alti non solo non hanno subito perdite, ma hanno anche visto migliorare la loro condizione economica. La quota delle persone povere è aumentata anche durante la doppia recessione degli ultimi anni, e in misura molto simile, dal 14 al 19 per cento. Questa volta, però, la riduzione dei redditi ha riguardato tutta la popolazione.

L’andamento, insomma, è molto diverso: durante la crisi valutaria del 1992 la diseguaglianza è aumentata all’interno dei gruppi socio-demografici, mentre contemporaneamente si allargavano i divari tra questi gruppi, per esempio tra residenti nel centro-nord e nel mezzogiorno; invece durante la doppia recessione avviatasi nel 2008-09, assai più lunga e pesante in termini di caduta del prodotto lordo, il livello assoluto di diseguaglianza non è mutato, però sono cresciuti i divari socio-demografici. Si è allargata, per esempio, la distanza tra i giovani e gli anziani, ma anche tra chi è nato in Italia e chi proviene dall’estero. “L’onere della doppia recessione è ricaduto in maniera cospicua sulle persone immigrate”, scrive Brandolini.

In conclusione, la divisione tra ricchi e poveri negli ultimi dieci anni è rimasta stabile in termini generali, però questo dato aggregato nasconde profondi cambiamenti nelle posizioni relative di specifici gruppi sociali. Ciò porta con sé due conseguenze anche in termini di politica economica: la prima è che servono misure redistributive non generiche, ma à la carte, cioè ritagliate sui bisogni diversi di diversi settori della società; la seconda è che senza un ritorno alla crescita, non è possibile nessun riequilibrio sociale.

Quale Italia emerge da questa carrellata: un paese ricco nonostante tutto, ma insoddisfatto? Non così diseguale come viene rappresentato, eppure bloccato, con un ascensore sociale che non si muove più dal basso in alto, ma troppo spesso in senso opposto. Se è vero, come abbiamo visto, che esiste un divario crescente tra il patrimonio e il reddito, tra la ricchezza riposta nel mattone, i risparmi trattenuti in banca spesso sotto forma liquida, le scelte di investimento concentrate in titoli di stato che spiazzano in questo modo l’utilizzo delle risorse per ampliare la base produttiva del paese; se la casa, spesso sotto forma di bed and breakfast diventa la risposta alla insicurezza del lavoro o una vera e propria alternativa alla ricerca di un impiego produttivo; allora da tutto questo spunta fuori una Italia dominata dalla rendita, non dal profitto e tanto meno dal salario.

Un paese arcaico, un paese dove la vocazione moderna, industriale e manifatturiera, resta ancora viva, ma non è più egemone né culturalmente, né economicamente e nemmeno politicamente. Il Censis l’ha chiamata l’Italia dei rentiers. Analisi approfondite andrebbero portate avanti non riducendo la sociologia al sondaggismo dei pareri, ma incrociando i dati quantitativi forniti da Istat, Bce, Banca d’Italia con il vissuto, come si suole dire, cioè con le esperienze concrete e le percezioni le quali sono reali, posseggono una loro verità, anche quando appaiono falsate. Vasto programma, però prima o poi qualcuno dovrà cominciarlo, senza arrendersi al sonno della ragione.

 

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!