La “Brexit” mina la fiducia nei Gilt e negli attivi rischiosi europei

A cura di WisdomTree Europe

Una Brexit potrebbe minare le decisioni finanziarie e commerciali nonché l’outlook fiscale del Regno Unito. Si tratta ovviamente di considerazioni importanti per i mercati, anche perché l’ampio disavanzo commerciale del 3,7% con l’Europa crea degli squilibri nella bilancia dei pagamenti britannica e ciò potrebbe intaccare la capacità del Regno Unito di ripristinare una situazione di equilibrio senza indebolire la sterlina. L’UE rappresenta quasi il 50% del volume totale del commercio di beni del Regno Unito mentre quest’ultimo incide solo per il 5% sul volume totale di scambi dell’Unione Europea: è quindi evidente come sia il Regno Unito a dipendere dall’UE anziché il contrario. Inoltre, mentre il Regno Unito è un esportatore netto di servizi (finanziari) verso l’UE, la spinta a rafforzare il fiscal compact da parte dell’UE, stabilendo un quadro normativo unico per la regolamentazione e supervisione del sistema bancario, rafforzerebbe probabilmente i servizi finanziari offerti dalle banche italiane, francesi e tedesche nel lungo periodo, penalizzando la quota di mercato del Regno Unito.

Il crescente disavanzo commerciale è sempre più sostenuto dagli investitori esteri che, senza il supporto dei loro capitali, intensificherebbero le pressioni sulla svalutazione della sterlina e l’aumento dei rendimenti dei Gilt, i titoli governativi britannici. Ad esempio, gli investimenti diretti all’estero in Regno Unito nel 2014 ammontavano a 52 mld di sterline secondo le statistiche sugli IDE pubblicate dall’OCSE nell’ottobre del 2015 e, se si estrapolano i dati scomposti per Paese d’origine nel 2013, si stima che circa la metà derivasse dai Paesi UE. Che il Regno Unito possa continuare ad attirare capitali europei a quel livello appare poco realistico nel clima d’incertezza creato dalla “Brexit”.

Il rischio di un indebolimento degli asset in sterlina è anche corroborato dagli afflussi relativamente consistenti di investimenti di portafoglio negli ultimi anni. Considerando la fase di rallentamento economico globale, il timing di una “Brexit” è piuttosto infelice. Il crollo dei prezzi delle commodity, l’elevato indebitamento del settore privato, l’eccesso di capacità del settore manifatturiero e l’aumento dei deficit fiscali dei partner commerciali esteri ridurranno probabilmente gli squilibri dei flussi di capitali e commerciali tra di essi e il Regno Unito e l’Europa continentale. Tuttavia, considerando che l’Eurozona, la Svizzera, la Svezia e la Danimarca sono esportatori netti di beni e servizi e dunque – implicitamente- di capitali, la correzione sui mercati finanziari dovrebbe essere relativamente modesta. Tuttavia, la Gran Bretagna è un Paese importatore netto di beni, servizi e capitali e in tal senso appare vulnerabile. A meno che l’entusiasmo calante degli investitori esteri per gli attivi in sterlina non venga controbilanciato dagli afflussi di portafoglio provenienti da investitori nazionali, la valuta britannica subirà delle pressioni per deprezzarsi così da correggere lo squilibrio.

Emergono dei segnali che ciò stia già accadendo: gli investitori esteri che detengono in portafoglio titoli governativi britannici, per un valore di 427 mld disterline nel terzo trimestre del 2015, sono a stento aumentati rispetto a dodici mesi fa e la quota del 26% di tutte le partecipazioni in Gilt risulta complessivamente in calo del 5% nello stesso periodo. Gli afflussi di portafoglio in Regno Unito – soprattutto di titoli di debito– sono di recente scesi rispetto ai picchi storici se confrontati al PIL, ad indicare che l’incertezza causata dalla “Brexit” – incluso un possibile declassamento del merito creditizio sull’outlook di più lungo periodo per il debito sovrano britannico da parte delle agenzie di rating – potrebbe rafforzare il rallentamento dei flussi in entrata sugli asset in sterlina, se non addirittura spingere gli investitori internazionali a tagliare l’esposizione.

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