La corsa del dollaro statunitense non è ancora finita?

A cura di Steven Andrews, M&G Investments
bbiamo commentato in diverse occasioni (qui ad esempio) l’attuale ossessione del mercato nel tentare di evincere significati nascosti da ogni parola dei politici. La parola del momento è “pazienza”. Dato che negli ultimi anni l’economia degli Stati Uniti sta recuperando terreno più rapidamente rispetto al resto dei Paesi occidentali, l’entità e le tempistiche di un aumento dei tassi di interesse negli USA restano uno degli argomenti più discussi dagli investitori. Di conseguenza la Federal Reserve si trova in una situazione delicata: la banca centrale statunitense sta cercando di bilanciare i tentativi di una comunicazione aperta con il mercato assieme al desiderio degli investitori di cogliere al volo qualsiasi allusione (sia essa intenzionale o inavvertita) in grado di offrire indizi volti a risolvere l’enigma.
Pertanto siamo arrivati alla riunione della Fed della scorsa settimana con la parola “pazienza” attentamente vagliata da parte di tutto l’universo finanziario (come qui, qui e qui tanto per citare solo alcuni esempi).  È facile guardare con disinvoltura a una cosa simile, ma, anche se l’abbandono della parola pazienza non ci offre neanche lontanamente tutte le informazioni che vorrebbero i commentatori di mercato rispetto alle prospettive macroeconomiche degli Stati Uniti, fattori del genere possono avere un certo peso in termini di movimenti di mercato a breve termine. Nell’estate 2013 la parola “tapering” scatenò una forte ondata di vendite sui mercati dei titoli di Stato USA. Questa volta sembra che gli investitori abbiano deciso di concentrarsi sui mercati valutari, in parte per via delle mosse recenti di politica monetaria della BCE, assieme ai 21 Paesi che hanno diminuito i loro tassi di interesse negli ultimi mesi.
I movimenti valutari recenti sono stati piuttosto estremi. Negli ultimi sei mesi il dollaro statunitense si è apprezzato non solo rispetto alle divise dei Paesi emergenti, ma anche a quelle degli altri Paesi principali. Da inizio settembre 2014, il real brasiliano è sceso di quasi il 30% rispetto al dollaro statunitense, l’euro ha perso quasi il 17% e lo yen giapponese il 12%. Le oscillazioni del mese scorso sono state particolarmente accentuate, come illustrato dall’euro passato di recente da 1,14 a 1,06 rispetto al dollaro nel giro di pochi giorni (dal 20 febbraio al 12 marzo 2015).
Quanto potrà continuare a rafforzarsi ancora il biglietto verde? Prevedere con accuratezza le fluttuazioni spot delle valute è un compito impossibile.  E rispetto ad attività che prevedono un carry positivo (ad es., se la valuta di destinazione sta offrendo un rendimento positivo), i pronostici su un futuro percorso del dollaro sono ancora più carichi di incertezze.   Ma quando consideriamo l’importante divergenza fondamentale che ha determinato il recente comportamento dei mercati valutari, sembra plausibile che il dollaro possa registrare un ulteriore balzo in avanti, soprattutto rispetto all’euro e allo yen.
Gli ultimi anni di misure straordinarie ci hanno condotto ad un punto di divergenza fortemente inusuale nella politica monetaria globale.  Non si tratta solo di tempistiche, con la Fed in anticipo di alcuni mesi, come già successo in passato, ma piuttosto della direzione e degli imperativi della politica.
La storia ci insegna che quando i Paesi avviano politiche asimmetriche, le conseguenze possono essere notevoli e sorprendenti a livello di portata. Dato che gli Stati Uniti sono praticamente l’unico Paese che sta mettendo in atto un inasprimento della politica, mentre buona parte del resto del mondo sta adottando politiche distensive, ci troviamo di fronte ad un contesto che favorisce grosse oscillazioni dei cambi esteri mentre gli investitori riposizionano le loro “ancore di valore”.
Abbiamo già assistito ad una sostanziosa oscillazione del dollaro.  Ma in contrasto con la nozione secondo la quale il prezzo più elevato di oggi “anticipa” meramente rendimenti futuri che, razionalmente, prevale in altri mercati degli asset,  tali ingenti oscillazioni potrebbero generare ulteriore vigore in quanto gli investitori cercano di ristabilire un’ancora psicologica per il valore della valuta, con i precedenti punti di riferimento messi in discussione e scartati.
A inizio 2015, la parità dollaro-euro appariva ancora molto lontana,  con un floor di cambio di circa 1,20 apparentenemente giustificato dal rapporto standard tra tassi di interesse a breve termine (si veda grafico 1).  A metà marzo è stata toccata una minima decennale di 1,06. E all’improvviso dobbiamo riportare i nostri dati e le nostre menti ancora un po’ più indietro nel tempo per rivalutare cosa sia plausibile (si veda grafico 2).  Date le forti disparità che dovrebbero permanere nelle linee di politica, un dollaro più forte/euro più debole dovrebbe probabilmente essere ciò che a questo punto ci aspettiamo.
Con questo in mente, ci sembra il caso di prendere in prestito una frase di Ronald Reagan dei primi anni ottanta e dicharare: “E non avete ancora visto niente!”
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