La Corte Costituzionale tedesca disgrega l’Europa, nonostante il Mes

A cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management

Era il momento di restare uniti e anzi, come successo già in passato, la crisi attuale doveva rappresentare per l’Europa un’occasione per accelerare il processo di integrazione tra i singoli Paesi. Invece, allo shock esterno rischiano di aggiungersi ulteriori difficoltà derivanti dall’incompleta architettura dell’Ume. A gettare un’ombra profonda sulle prospettive future per le istituzioni comunitarie è stata questa volta la Corte Costituzionale tedesca che, con una sentenza che ha del sorprendente, ha sollevato il dubbio che la Bce potesse non aver rispettato il principio di proporzionalità nel perseguire gli obiettivi di politica monetaria e ha quindi chiesto all’istituto centrale di dimostrare in maniera inequivocabile, entro 3 mesi, che gli effetti economici e fiscali delle sue politiche siano proporzionati a quelli monetari (portare l’inflazione a un livello prossimo, ma inferiore al 2%).

Oggetto della disputa è il programma di acquisto di Titoli di Stato (Public Sector Purchase Programme, Pspp), che la Bce ha fatto ripartire a inizio 2019 mentre è, almeno per il momento, esente il recente Pandemic Emergency Purchase Programme (Pepp), attivato per far fronte alla crisi scaturita dalla pandemia di Covid-19. Ma ciò che preoccupa è in realtà il conflitto istituzionale generato dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca, che rischia di produrre degli effetti strutturali di lungo periodo sull’assetto politico comunitario e crea un pericoloso precedente che pone l’operato della Bce sotto il controllo e la valutazione delle giurisdizioni nazionali.

Quanto elaborato dalla Corte Costituzionale tedesca rappresenta un quantomeno inopportuno ostacolo lungo il percorso di maggiore flessibilità intrapreso tempestivamente dalla Bce per fronteggiare la situazione di estrema emergenza in cui versa l’economia dell’area. Flessibilità che, grazie all’abbandono temporaneo del meccanismo delle capital key nel suo programma di acquisti, sta effettivamente permettendo alla Bce di comprare nelle ultime settimane Titoli di Stato con un forte sbilanciamento a favore delle emissioni dei Paesi del sud Europa, Italia su tutti, a scapito di quelle dei Paesi core.

D’altronde, lo shock prodotto dalla pandemia di coronavirus è comune a tutti gli Stati membri e giustifica, di conseguenza, un intervento delle istituzioni europee volto a preservare l’unità del blocco, in nome della solidarietà. E nell’attesa di una risposta di bilancio collettiva, il ruolo di garante della tenuta economica e finanziaria della regione è affidato per il momento quasi esclusivamente alla Bce. In tal senso, oggi più che mai, un’istanza di sfiducia e delegittimazione nei confronti dell’istituto centrale potrebbe risultare pericolosa.

In particolare, il suo intervento è fondamentale nel facilitare la sostenibilità del debito pubblico in un contesto in cui i governi saranno inevitabilmente chiamati a dar fondo alle proprie riserve di bilancio per limitare l’impatto dell’emergenza sanitaria sull’attività economica. Prendendo ad esempio il caso dell’Italia, nel Def di aprile è stato ipotizzato un deficit fiscale del -10% circa per il 2020, equivalente a un ricorso al debito per un importo di circa 160 miliardi di euro, senza considerare la quota aggiuntiva di deficit derivante dall’eventuale default degli emittenti garantiti dallo Stato. Le manovre fiscali comunitarie (Mes, Bei, Sure), una volta attivate entro l’estate, dovrebbero nel complesso liberare risorse per circa 85 miliardi di euro per il nostro Paese, non sufficienti a bilanciare l’emissione di nuovo debito. Il Recovery Fund sarà determinante nel medio periodo, ma partirà nel 2021 (salvo qualche finanziamento ponte).

Queste misure, come si intuisce esaminando chi avrà interesse a farvi ricorso (perché si indebita sul mercato a costi più elevati), saranno anche sbilanciate nel breve termine a favore dei Paesi più duramente colpiti dal virus e che necessitano maggiormente di un sostegno comunitario, visti i diversi spazi di manovra fiscale a disposizione dei singoli Stati. La loro approvazione funge quindi da barometro di solidarietà e coesione politica, ma da sole non garantiscono la sostenibilità del debito pubblico italiano destinato a salire dal 135% del Pil ad almeno il 155%.

Quanto attuato sinora dalla Bce mantiene i tassi reali in territorio negativo e quindi consente di tenere l’andamento del debito sotto controllo. Infatti, gli acquisti di Titoli di Stato (pari a circa 2/3 delle emissioni necessarie a finanziare la spesa fiscale del 2020), implicano che non debbano essere assorbiti dal mercato e che ne venga annullato il costo per il Tesoro (le relative cedole vengono retrocesse dalla Banca d’Italia, che esegue gran parte degli acquisti per conto della Bce, al Tesoro italiano a fine anno): in buona sostanza, questo debito è come se non esistesse, né per gli effetti di stock né per quelli di flusso. Questa forma indiretta di monetizzazione del debito è attualmente un fenomeno globale ben più evidente in Usa o Giappone. Il crescente debito mondiale emesso in questi mesi potrà essere eroso da inflazione (speriamo), austerità (auspicabilmente poca) o default (speriamo nessuno).

Certo, una domanda che ci si pone spesso è come i titoli (in particolare dei Paesi periferici) detenuti dalla Bce e dalle banche centrali nazionali potranno mai essere reimmessi nel mercato. Nell’ipotesi che prevalgano le forze per l’integrazione su quelle centrifughe, tale quota di debito potrebbe essere un giorno riacquistata da un veicolo ad hoc che si finanzi emettendo obbligazioni sul mercato (con garanzie): si tratterebbe di Eurobond sintetici. Il fatto è che tutte le forme di intervento discusse, di natura fiscale o monetaria, sono già forme indirette di mutualizzazione dalle quali sarà impossibile tornare indietro senza traumi. Quindi auguriamoci, nonostante tutto, la strada virtuosa.

Cosa succede sui mercati azionari

Le difficoltà a livello istituzionale del Vecchio Continente non sono passate inosservate ai mercati, che nel corso del rimbalzo di aprile hanno premiato in effetti i listini americani e cinesi.
Ciò che è particolarmente interessante rilevare è che, nonostante le borse globali registrino performance negative da inizio anno, le valutazioni azionarie (rapporti P/E) non siano affatto economiche.

La crisi provocata dal coronavirus rappresenta, infatti, una minaccia concreta e rilevante per la crescita economica e per gli utili aziendali. Per questo motivo, il denominatore del rapporto P/E, gli utili, ha subito delle decise revisioni al ribasso, in grado di compensare abbondantemente il calo dei prezzi osservato e, di fatto, far risalire nel breve termine le valutazioni. Non è un caso, quindi, che queste risultino paradossalmente più elevate proprio nei settori più duramente colpiti dall’emergenza sanitaria e dalle conseguenti misure di ‘lockdown’, le cui previsioni di utili sono stati fortemente penalizzate.

Contemporaneamente, sulla variabile al numeratore, il prezzo, agiscono nel breve termine le manovre fiscali e monetarie messe in atto a livello globale. Queste producono un duplice effetto: in primis, la loro combinazione rinvigorisce in parte le aspettative dei dividendi futuri, su cui grava però in modo determinante l’impatto del Covid-19; in secondo luogo, le politiche monetarie espansive mantengono i tassi reali in territorio negativo, facendo crescere il valore attuale di tali dividendi futuri, ossia portando in alto i prezzi a parità di dividendi futuri (il prezzo delle azioni non è altro che il valore attuale della somma dei dividendi futuri).

Ecco spiegato il fenomeno che stiamo osservando in questo momento sulle valutazioni azionarie. Nonostante il calo dei prezzi in questi primi mesi dell’anno, calo tra l’altro attenuato dal deciso rimbalzo delle borse nel mese di aprile, le revisioni degli utili da un parte e il mix di politiche fiscali e monetarie espansive dall’altra hanno finito per far risalire i multipli P/E.

Guardando avanti, nel medio periodo, è indubbio che la pandemia in atto stia producendo degli impatti strutturali in alcuni settori, sia in positivo (IT, farmaceutici e comunicazioni digitali) che in negativo (trasporti, turismo, tempo libero, commercio e finanziari). La brutta notizia è che i settori che stanno sperimentando un’accelerazione nell’attuale contesto pesano meno, in termini di utili, rispetto a quelli più colpiti, il che vuol dire che stiamo assistendo a danni strutturali alla crescita degli utili pari a un 10% circa (prendendo a riferimento il mercato mondiale, emergenti inclusi, rappresentato dell’indice Msci Acwi).

Ulteriori danni permanenti riguarderanno il commercio internazionale, il costo legato al rientro dalle politiche fiscali espansive (verosimilmente, maggiori tasse sulle imprese) e le eventuali nazionalizzazioni di cui si sente tanto parlare.

Il quadro a medio termine risulta quindi meno incoraggiante. Ma ciò non vuol dire che l’impatto debba essere uniforme a livello globale. Osservando la dinamica degli utili futuri, infatti, questa sembra premiare tra i Paesi sviluppati gli Stati Uniti, che godono sia di un enorme vantaggio competitivo nei settori che stanno uscendo vincitori dalla crisi attuale sia degli imponenti stimoli fiscali e monetari implementati in questi mesi.

Tuttavia, non è da escludere nel medio termine una buona performance delle azioni dei mercati emergenti, in particolare della Cina. Il Paese asiatico, oltre ad essere stato il primo ad uscire dall’emergenza sanitaria e ad aver quindi sperimentato un minore impatto sugli utili del Covid-19 (-7% vs -20% e -21% rispettivamente di Usa ed Europa), non ha ancora beneficiato appieno dell’effetto espansivo sui multipli delle politiche monetarie. La PBoC è infatti rimasta per il momento estremamente cauta, ma qualora dovesse decidere di seguire l’esempio delle controparti sviluppate, l’effetto potenziale sulle valutazioni azionarie potrebbe essere dirompente.

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