La politica di Trump, almeno all’inizio, dovrebbe far salire ancora il dollaro

A cura di Amundi

Dall’elezione di Donald Trump, il tasso di cambio effettivo del dollaro ha guadagnato circa il 4%, raggiungendo i massimi dal 2003. La politica fiscale degli USA lo spingerà ancora più in alto? Si tratta di una questione cruciale non solo per l’economia americana (secondo il modello della Fed, un rialzo del 10% del dollaro equivale a un rialzo del tasso sui fed fund di circa 100 pb), ma anche per le economie emergenti (un dollaro più forte indebolisce i Paesi indebitati in dollari).

La storia delle politiche fiscali depone a favore di un dollaro forte. Negli ultimi quarant’anni, le due fasi di overshooting del dollaro si sono verificate duran-te i due episodi chiave della storia della politica fiscale americana: i tagli alle tasse sotto l’amministrazione Reagan all’inizio degli anni Ottanta e poi sotto l’amministrazione Bush nel periodo 2001-2003. Tuttavia, i due episodi sono di natura diversa.

  • Sotto Ronald Reagan, ebbe un ruolo fondamentale la politica moneta-ria fortemente restrittiva della Fed che aveva lo scopo di imbrigliare l’in-flazione (allora vicino al 14%). Allora fu la combinazione tra politica mo-netaria restrittiva e politica di bilancio espansiva a far salire il dollaro.
  • Sotto George Bush, invece, il dollaro si apprezzò anche quando i tassi d’interesse (sia quelli di riferimento, sia quelli obbligazionari) stavano scendendo. I tagli alle tasse non sono la causa del rafforzamento del dollaro USA, iniziato molto prima, ma probabilmente hanno alimentato l’overshooting mediante le attese sulla crescita

Ma la situazione attuale è molto diversa da quella dei primi anni Ottanta. L’inflazione non rappresenta una vera minaccia e, nel suo ultimo discorso, Janet Yellen si è espressa ancora una volta in favore di una stretta monetaria graduale. Tuttavia, il dollaro dovrebbe bene-ficiare di diversi fattori specifici di questo periodo:

  1. Lo sfasamento del ciclo economico. L’economia americana è in una condizione di piena occupazione. Gli stimoli fiscali po-trebbero quindi esacerbare le spinte inflazionistiche e costringere la Fed ad alzare ulteriormente i tassi.
  2. Un aggiustamento della tassa di confine. Nonostante Donald Trump abbia di recente respinto questa proposta della Came-ra dei Rappresentanti, ritenendola “troppo complicata”, essa pare ancora attuale. In teoria, la valuta di un Paese che impone una tassa di confine dovrebbe apprezzarsi immediatamente attraverso le variazioni attese della domanda e dell’offerta di valu-te. Ad esempio, nel caso di una tassa del 20%, il dollaro dovrebbe apprezzarsi in teoria del 25% per compensare il guadagno in termini di competitività derivante dalla nuova tassa. Ricordatevi comunque che questo meccanismo di mercato non è affatto automatico.
  3. Tagli delle imposte sul rimpatrio degli utili (10%) Le aziende americane hanno accumulato al di fuori degli Stati Uniti utili per un valore stimato di 2.500 miliardi di dollari. Molto probabilmente, questi importi sono già in larga parte in dollari e quindi la misura proposta da Trump avrebbe un effetto diretto minore sul biglietto verde. Anche in tale situazione, il rimpatrio determine-rebbe comunque una nuova ondata di riacquisti di azioni proprie negli USA che attirerebbe gli investitori stranieri nonostante le valutazioni eccessive.
  4. Misure protezionistiche Il crescente protezionismo peggiorerebbe le spinte inflazionistiche ed è nei Paesi più vicini alla piena occupazione che le banche centrali reagiranno per prime. Nel frattempo, poiché l’economia americana è piuttosto chiusa, essa verrebbe relativamente risparmiata dall’indebolimento del commercio mondiale. Per contro, a medio termine, le misure protezionistiche sminuirebbero il ruolo del dollaro come valuta dominante nel sistema monetario internazionale.

Alla luce di queste misure, Donald Trump probabilmente non riuscirà a impedire un ulteriore rafforzamento del dollaro. Tuttavia, pensiamo che questo trend avrà breve durata, visto che l’inasprimento delle condizioni monetarie (ad es. rialzo dei rendimenti obbligazionari e dollaro più forte) potrebbe avere un impatto sulla crescita prima degli stimoli fiscali, facendo così vacillare le basi dell’economia USA.

Dopo il rally dei mercati azionari alla fine del 2016, il 2017 si è aperto con un’intonazione positiva. Tuttavia, sono sempre più i commentatori che stanno evidenziando le incertezze dell’attuale contesto – in che misura il pro-gramma elettorale di Trump verrà applicato, quanto saliranno i tassi d’interesse, se ci sarà una reale ripresa dell’inflazione, quale sarà l’esito delle elezioni in Europa ecc… e quanto sono costosi i mercati. La crescita netta attesa degli utili prevista per il 2017 dovrebbe tuttavia placare questi timori. Di conseguenza, vista la mancanza di alternative, i mercati azionari dovrebbero salire ancora prima di consolidarsi. Non sembra quindi ancora giunta l’ora di effettuare delle prese di beneficio. Tuttavia, la ripresa attesa degli utili da un lato e dei tassi a lungo termi-ne e del dollaro dall’altro, saranno le variabili determinanti per valutare l’opportunità o meno di assumere posizioni più difensive.

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