La Turchia non è il canarino nella miniera degli emergenti

Di Kim Catechis, Head of Emerging Markets di Martin Currie (gruppo Legg Mason)

La situazione turca sta decisamente innervosendo i mercati, come dimostra il crollo della lira, per non parlare del ritorno dell’infausta parola ‘contagio’ sui titoli dei giornali. Qualsiasi analista può confermare che, soprattutto nella nostra era algoritmica, l’inerzia del momento tende ad autoalimentarsi: basta solo una piccola spinta per innescare un effetto domino.

Ciò detto, è importante fare un passo indietro e allargare lo sguardo su un orizzonte più ampio. La situazione attuale deve essere monitorata attentamente, ma la Turchia non è il canarino nella miniera dei mercati emergenti: piuttosto, è un caso isolato motivato da condizioni preesistenti. In un certo senso stiamo parlando di un danno collaterale, trattandosi di un’economia con un debito in dollari USA nel settore corporate abbastanza alto, che ora sta sperimentando i postumi di una “sbornia” dopo un prolungato periodo di crescita economica spinto da politiche non convenzionali.

Le cause della fragilità turca

Nella percezione degli investitori, la Turchia è in una posizione vulnerabile già da qualche tempo, a causa del suo disavanzo delle partite correnti (che dipende da flussi di capitale molto volubili), delle turbolenti dinamiche politiche e delle pressioni inflazionistiche (con preoccupazioni crescenti riguardo l’indipendenza della banca centrale turca). In altre parole, il colpo basso dei dazi e delle sanzioni sta soltanto amplificando un nervosismo – in parte comprensibile – preesistente.

Come alcuni osservatori hanno rilevato, la conseguente fuga dei capitali dai mercati potrebbe soltanto confondere il popolo turco sulle reali cause dei problemi economici del paese. Potrebbe infatti far ricadere la responsabilità della situazione attuale sugli investitori stranieri, invece che sulle politiche economiche dell’amministrazione Erdogan.

Pechino, nel frattempo, contrattacca

La Cina è certamente una pedina molto più importante nello scenario attuale del commercio globale, essendo al centro delle ire di Washington. Il livello della tensione, nella retorica, cresce praticamente di giorno in giorno, ma è importante tener presente che gli USA comprano molto di più dalla Cina di quanto la Cina compri dagli USA. Pechino è tutt’altro che inerme, insomma.

Né dovremmo dimenticarci, inoltre, che la Cina è oggi il maggior creditore staniero degli USA. Se non bastasse, Pechino ha anche avuto tempo per prepararsi a un’eventuale escalation della guerra commerciale, attraverso politiche che hanno rafforzato l’economia domestica e con la messa a punto di una strategia precisa – con dazi e altre misure – per ogni fase di una possibile guerra commerciale.

Nel frattempo stiamo già vedendo – in particolare nel settore agricolo – gli effetti negativi del protezionismo di Washington sull’economia USA, sotto forma di minori vendite e profitti ridotti. Il Dipartimento dell’Agricoltura USA è corso ai ripari annunciando un pacchetto di sostegno per gli agricoltori americani pari a 12 miliardi di dollari, a quanto pare il più corposo mai offerto dal governo USA a seguito di una disputa commerciale. Ed è importante sottolineare che un parte di questo mercato si sta spostando verso altri lidi. I produttori di soia argentini e brasiliani, ad esempio, stanno vivendo una fase positiva grazie a prezzi futures più alti e alle maggiori vendite in Cina.

In effetti è probabile che queste tensioni commerciali avranno come esito un’accelerazione ulteriore del commercio interno tra paesi emergenti, così come un rafforzamento dei legami tra mercati emergenti e altri partner, Europa compresa. L’ambiziosissimo progetto cinese “Nuova Via della Seta” sta già garantendo maggior velocità e minori costi nei trasporti tra Cina ed Europa.

Restare lucidi nel momento attuale

È difficile prevedere il finale di questa saga commerciale, ma è probabile che, prima di far scoppiare una vera guerra commerciale, Trump si fermerà, magari dichiarando vittoria – almeno per la sua base elettorale – anche se non avrà raggiunto tutti i suoi obiettivi. In parte abbiamo forse già visto un’anticipazione di questo scenario dopo il meeting con Juncker a fine luglio. In ogni caso, gli investitori di lungo termine devono guardare oltre la confusione attuale. È lecito aspettarsi che la volatilità resterà alta nei prossimi mesi, ma per quanto ci riguarda probabilmente considereremo qualsiasi ribasso come un’opportunità di acquistare nell’azionario emergente.

 

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