Le cinque lezioni dello scorso anno

A cura della Strategy Unit di Pictet AM
La diversificazione non è stata una strategia vincente nel 2018. La maggior parte dei mercati azionari regionali e settoriali che compongono l’indice MSCI World ha chiuso l’anno in territorio negativo, così come i Treasury USA e gli indici obbligazionari societari. Le obbligazioni di Stato globali avrebbero fatto altrettanto, se non ci fosse stato il rally di dicembre. Infatti, in dollari, tutte le principali classi di attivi hanno chiuso il periodo in negativo, lasciando la liquidità statunitense come la migliore classe di attivi per la prima volta dal 1986.
Un portafoglio “risk parity” – ovvero che contiene il 75% di attivi investiti in obbligazioni globali (JPM Global Government Bonds in valuta locale) e il resto in azioni globali (MSCI World) – avrebbe perso l’1% a fine anno. È la prima volta che tale portafoglio avrebbe registrato una perdita dal 2008, e prima ancora, dal 1994.
Lo stimolo delle banche centrali conta…
Tutto quello che sale prima o poi deve scendere? Dalla crisi finanziaria il quantitative easing attuato dalle banche centrali ha spinto al rialzo i prezzi degli attivi, determinando un periodo di rialzo record per le azioni globali. Ma nel 2018, e per la prima volta in 10 anni, le principali autorità monetarie del mondo sono diventate venditrici nette di attivi finanziari: il loro stimolo è sceso a 600 miliardi di dollari dai 2600 dell’anno precedente1.
La nostra analisi indica che il ritiro della liquidità ha già iniziato a pesare sui multipli price-earnings. Per il futuro, prevediamo che la liquidità in eccesso continuerà a calare. Ciò probabilmente indurrà una flessione del 10% nelle valutazioni delle azioni globali sulla base dei price-earnings.
…e anche la geopolitica
Tutte le realtà politiche potrebbero essere considerate locali, così come i terremoti. Il 2018 ci ha ricordato che gli scossoni politici possono propagarsi per distanze enormi. Uno dei principali temi populistici del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato quello secondo cui gli USA ricevono un trattamento sfavorevole dai loro partner commerciali, soprattutto dalla Cina. Utilizzando i suoi poteri esecutivi, ha imposto ingenti dazi e ne ha minacciati di peggiori. Finora, il commercio mondiale ha resistito abbastanza bene. I produttori o i consumatori sono riusciti ad assorbire i costi, o in alternativa, a trovare nuovi clienti o nuovi fornitori.
Ma per quanto tempo l’economia globale reale rimarrà immune è un grosso interrogativo. Le guerre commerciali hanno già prodotto un forte impatto sul sentiment delle aziende. Prendiamo ad esempio la componente delle esportazioni dell’indice dei responsabili degli acquisti. Dopo aver raggiunto 55,7 a febbraio, il livello massimo dal 2011, gli ordini per le esportazioni dei PMI sono calati al 50,6 ad ottobre, un dato che evidenzia una crescita scarsissima – un crollo probabilmente indotto dalle tensioni commerciali globali.
Inoltre, il problema del commercio non è destinato a risolversi in fretta. Perché è al centro del braccio di ferro per la supremazia globale tra Stati Uniti e Cina, destinato a durare anche nei prossimi anni.
Un dollaro statunitense più forte è sempre una cattiva notizia per i mercati emergenti
All’inizio del 2018 i mercati emergenti parevano una buona scelta di investimento sulla carta: forte crescita economica, bassa inflazione, prezzi delle materie prime in ripresa, valutazioni interessanti… Ma una sola cosa ha rovinato tutto: il dollaro.
Il biglietto verde ha guadagnato circa l’8% rispetto ad un paniere di valute ponderate per gli scambi commerciali. Per i mercati emergenti è stato un duro colpo, che ha suscitato il timore di maggiori costi di servizio del debito in dollari e crescenti prezzi per le merci estere. Di conseguenza, i rendimenti totali in dollari sulle azioni dei mercati in via di sviluppo sono rimasti indietro rispetto all’indice di riferimento globale di circa il 7%.
Entrando nel 2019, c’è motivo di ritenere che il dollaro possa invertire il suo corso, in quanto la crescita statunitense rallenta, il restringimento della Fed perde slancio e gli effetti dello stimolo fiscale si affievoliscono. Valutazioni elevate e un sentiment molto ottimistico rappresentano ulteriori ostacoli. Tuttavia, da qualsiasi parte spiri il vento, pare probabile che i rendimenti dei mercati emergenti andranno di pari passo con il cammino del dollaro.
Mai sottostimare la capacità dell’Europa di deludere
I mercati emergenti non sono stati l’unica regione a deludere. La magra performance dei titoli europei – una posizione lunga degli analisti nello scorso gennaio – ha dimostrato che i problemi della regione non sono affatto risolti. La situazione dell’Italia è stata la principale fonte di preoccupazione, sia dal punto di vista politico che economico. Sebbene il governo italiano si sia scontrato con Bruxelles sui piani di bilancio espansionistici, l’economia del paese è rimasta stagnante, trascinando al ribasso la crescita complessiva nell’Eurozona. Lo spread di rendimento tra i titoli di Stato italiani a 10 anni
e i Bund tedeschi di pari scadenza si è impennato oltre i 300 punti base in autunno, il livello massimo da luglio 2013. Situazione che a sua volta ha gravato sulle azioni europee. A dicembre le azioni europee sia in valuta locale che in dollari hanno toccato i livelli minimi di tutti i tempi in termini relativi rispetto a quelle statunitensi.
 

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