Le prossime mosse delle banche centrali e l’asset allocation di Ubs Wealth Management

a cura di Mark Haefele, Global Chief Investment Officer Ubs Wealth Management

Dalla crisi finanziaria, la Fed, la BoE, la BoJ e la Bce hanno stampato moneta per un importo totale equivalente a 5.700 miliardi di dollari, sufficiente a costruire con biglietti da 100 dollari un’autostrada a sei corsie che fa due giri intorno al mondo. Data l’entità dell’allentamento monetario effettuato, non sorprende quindi che in questo periodo la politica delle banche centrali globali sia stata il fattore determinante per la performance degli investimenti. Anche quest’anno l’idea che gli investitori dovessero seguire le indicazioni delle autorità monetarie si è rivelata corretta. Eurozona e Giappone, che stanno portando avanti programmi aggressivi di allentamento quantitativo (QE), hanno registrato i migliori rendimenti tra i mercati sviluppati. Le azioni cinesi hanno a loro volta reagito molto bene all’espansione monetaria operata dalla People’s Bank of China (PBoC). Queste politiche hanno favorito gli attivi rischiosi e gli investitori si aspettano che proseguano ulteriormente. In occasione del nostro recente forum d’investimento a Davos, i gestori partecipanti – responsabili per patrimoni complessivi di USD 11 000 miliardi – si sono trovati d’accordo sul fatto che anche quest’anno le banche centrali continueranno a dare sostegno agli attivi rischiosi. Ma niente è per sempre. Dopo più di sei anni di QE, gli istituti monetari avvertono che la fine è vicina e che questa politica non è priva di rischi. I massimi esponenti della BCE e della Fed, Mario Draghi e Janet Yellen, ci hanno recentemente ricordato che occorre monitorare attentamente i possibili pericoli derivanti dal QE. Anche se probabilmente le banche centrali continueranno a stimolare l’economia nel corso del 2015, dobbiamo quindi valutare come potrebbero modificarsi le prospettive al variare di fattori come crescita, inflazione, occupazione, salari, prezzi degli attivi finanziari e/o disuguaglianze. A mio avviso, nel breve periodo le autorità monetarie potranno scegliere la strada da seguire fra tre possibili alternative. Quella più comoda, che rappresenta il nostro scenario di base, è una ripresa economica pressoché perfetta caratterizzata da un’inflazione contenuta, una progressiva accelerazione della crescita e modesti aumenti salariali, che consentirà alle banche centrali di mantenere le attuali politiche accomodanti, per poi ritirarle gradualmente. Questo contesto dovrebbe fornire sostegno agli attivi rischiosi come le azioni e le obbligazioni societarie high yield. Ma accanto al nostro scenario di base corrono due strade più tortuose, quelle di un «tightening tantrum» o un QE eterno.

«Tightening tantrum»: rapidi incrementi dei tassi d’interesse Nel nostro scenario di base, ci aspettiamo che la Fed cominci ad alzare i tassi a settembre. L’incertezza circa l’esatto ritmo dell’inasprimento monetario potrebbe far salire la volatilità azionaria rispetto agli attuali bassi livelli. Tuttavia, finché la Fed continuerà a stimolare la crescita economica, i rendimenti prodotti dalle azioni e dai titoli di credito high yield dovrebbero più che compensare i rischi. La nostra fiducia nello scenario di base potrebbe diminuire se i dati dimostrassero che la Fed non riesce a mantenere sotto controllo l’inflazione. In questo caso i tassi d’interesse verrebbero alzati più rapidamente del previsto e potrebbe quindi materializzarsi un «tightening tantrum» – un’eccessiva reazione negativa dei mercati alla stretta monetaria – in grado di scatenare pesanti ribassi dei mercati azionari e obbligazionari, analoghi a quelli avvenuti a metà 2013 a fronte dei primi segnali di riduzione del QE («taper tantrum»). La Fed potrebbe attuare politiche più restrittive di quelle attualmente attese se si verificassero due possibili sviluppi: inflazione in un quadro di crescita o inflazione senza crescita. Il segnale principale del primo e più favorevole scenario è la crescita delle retribuzioni. Secondo la maggior parte degli indicatori, le pressioni salariali sono modeste. Le retribuzioni orarie medie sono complessivamente salite solo del 2,2% nei 12 mesi ad aprile, poco al di sopra del 2% medio degli ultimi cinque anni, benché la disoccupazione sia scesa quasi del 50% rispetto ai massimi del 2009. Tuttavia, il dato potrebbe essere depresso dalla maggiore creazione di posti di lavoro a bassa remunerazione. Secondo un altro indicatore che rispecchia meglio la situazione dei singoli lavoratori esistenti (rispetto a un semplice aggregato), le richieste salariali potrebbero essere in aumento. Dall’andamento dell’indice del costo del lavoro di questo mese (+2,6% nei 12 mesi a marzo) emerge che i lavoratori esistenti riescono a ottenere pacchetti retributivi leggermente più alti. In passato questi segnali precoci d’inflazione si sono spesso dimostrati fuorvianti, ma dovremo prestare attenzione a eventuali ulteriori aumenti di questo indice. Si avrebbe un quadro ancora più negativo in caso di stagflazione, ovvero un’accelerazione dei prezzi non accompagnata da una corrispondente espansione economica. Le spirali salari-prezzi tipiche degli anni ’70 sembrano oggi poco probabili, ma vale la pena valutare la possibilità che si instauri un tipo diverso di stagflazione: quella dei prezzi degli attivi finanziari. Come spiegavo nella mia ultima lettera, i mercati trainati dal QE generano inflazione dei prezzi degli attivi, una dinamica che potrebbe proseguire finché i livelli eccessivi di leva e di speculazione non avranno drenato troppe risorse dai settori produttivi dell’economia. A quel punto, la Fed o altre banche centrali potrebbero chiudere i rubinetti della liquidità anche in presenza di una crescita sotto tono. Non credo che le banche centrali dei mercati sviluppati si stiano preparando a far scoppiare bolle, vere o immaginarie. I principali listini azionari non trattano certo a prezzi economici, ma non sono neanche eccessivamente sopravvalutati. L’MSCI AC World Index quota con un rapporto prezzo/utili prospettici di 16,9 volte, contro una media a 15 anni di 14,8. Non ravvisiamo neanche segnali concreti di surriscaldamento dei salari, dell’economia o della spesa al consumo.

QE eterno: una strada senza fine Un altro possibile scenario negativo è che gli stimoli attuati non riescano a generare una crescita sufficiente. Anche in un’economia flessibile come quella statunitense, vi è una probabilità non trascurabile che l’autorità monetaria sia costretta a effettuare un nuovo allentamento. Per la terza volta consecutiva, gli Stati Uniti hanno accusato una battuta d’arresto poco dopo la fine di una tornata di QE. In economie strutturalmente più fragili come l’Eurozona, vi è un rischio ancora maggiore che il QE non basti a stimolare una crescita sufficiente e debba quindi proseguire in eterno. Il Giappone è un esempio concreto di questa dinamica. I rendimenti obbligazionari estremamente contenuti, l’euro debole e i bassi prezzi del petrolio hanno dato temporaneamente slancio all’Eurozona. Tuttavia, non si registrano ancora segnali di una ripresa in grado di autoalimentarsi e i recenti movimenti del mercato dimostrano come questi effetti temporanei possano rapidamente invertirsi. Per sostenere la crescita su base sostenibile serviranno interventi come la liberalizzazione dei mercati del lavoro e l’apertura di vari settori alla concorrenza. Purtroppo, il ritmo delle riforme strutturali in grado di aumentare la produttività nell’Eurozona continua a deludere le attese, soprattutto in Italia e in Francia. In assenza di un recupero duraturo della crescita, la BCE potrebbe essere costretta a proseguire ulteriormente il QE. Nel breve periodo non si tratta necessariamente di uno scenario sfavorevole per i mercati azionari: le politiche monetarie non convenzionali hanno contribuito a sostenere questi listini negli ultimi sei anni e continueranno a esercitare un notevole impatto. Tuttavia, più verrà protratto il QE, maggiori sono le probabilità che abbia conseguenze negative (come la speculazione, la leva eccessiva e le disuguaglianze).

Mantenere la rotta Negli ultimi anni la sfida più grande per gli investitori è stata mantenere la rotta intrapresa e contare sull’impegno delle banche centrali a far funzionare le politiche espansive. Questa impresa potrebbe diventare ancora più ardua nei prossimi mesi se la volatilità che da inizio anno colpisce i mercati valutari e obbligazionari si allargasse anche alle piazze azionarie. Nel complesso, tuttavia, i dati pubblicati ci sembrano tracciare prospettive positive per le politiche delle banche centrali nel nostro orizzonte d’investimento tattico. La crescita economica dovrebbe essere abbastanza solida da permettere agli attivi rischiosi di registrare buone performance (cfr. fig. 3). Quest’anno il PIL degli Stati Uniti dovrebbe mettere a segno un’espansione del 2,3%, di poco inferiore alla media. I prezzi restano sotto controllo e l’occupazione potrebbe registrare un’ulteriore crescita non inflazionistica, nell’ipotesi che una fetta di lavoratori scoraggiati faccia ritorno sul mercato del lavoro. L’economia europea ha sorpreso in positivo da inizio anno e, data la disoccupazione ancora elevata, la BCE dovrebbe poter mantenere una politica monetaria accomodante senza innescare un’impennata inflazionistica. La prontezza dell’istituto di Francoforte nell’intervenire contro potenziali turbative di mercato, emersa ancora una volta la scorsa settimana, rappresenta un ulteriore elemento a favore, in particolare in caso di deterioramento della crisi greca. Anche il Giappone sta compiendo progressi. Il governatore della BoJ, Haruhiko Kuroda, ha recentemente affermato che l’output gap nipponico è ormai vicino a zero e che l’inflazione comincerà presto a risalire verso livelli più salutari. Inoltre, vi sono buoni motivi per essere ottimisti nei confronti dell’economia cinese, almeno a breve termine. La PBoC ha prorogato la scadenza di alcuni titoli di Stato e ha già tagliato i costi di finanziamento tre volte negli ultimi sei mesi. Non dobbiamo sottovalutare la capacità del governo cinese di influenzare l’attività economica.

Asset allocation Come dobbiamo posizionarci, dunque? Continueremo a prestare attenzione a eventuali indicazioni che le banche centrali siano costrette a rinunciare alle loro politiche di stimolo della crescita. Tuttavia, nel nostro orizzonte d’investimento tattico a sei mesi non ravvisiamo pressioni economiche in grado di costringere gli istituti monetari a cambiare rotta. Lo spettro della deflazione si è attenuato e non vi sono chiari segnali di un’accelerazione troppo rapida dell’inflazione. La traiettoria di crescita appare relativamente promettente negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, senza spie di surriscaldamento. Confermiamo dunque i sovrappesi nei titoli rischiosi quali azioni e obbligazioni societarie high yield e deteniamo la maggiore sovraesposizione nei mercati azionari dell’Eurozona. Questo comparto dovrebbe continuare a beneficiare delle politiche della BCE, che si attesta come la banca centrale più intenzionata a mantenere la rotta dell’attuale programma di QE. Potremmo assumere un orientamento sempre più favorevole verso gli attivi rischiosi in presenza di un quadro di crescita più elevata e bassa inflazione nelle principali economie: lo scenario ideale è quello di un recupero della spesa al consumo statunitense, un miglioramento duraturo della domanda interna nell’Eurozona, un maggiore momentum degli utili globali e un aumento della fiducia delle imprese che si traduce in una ripartenza delle spese per investimenti. Nell’ambito dell’asset allocation tattica, questo mese assumiamo una sovraponderazione nella sterlina britannica rispetto al dollaro australiano. Crediamo che il recente rafforzamento dell’economia del Regno Unito e l’indebolimento dell’Australia, altamente esposta alle materie prime, possano far divergere le politiche monetarie dei due paesi. Lo smobilizzo delle posizioni di carry trade esistenti sull’AUD non è ancora pienamente scontato dal mercato. A nostro avviso il cambio AUDGBP è attualmente sopravvalutato del 18%. Nelle altre regioni, confermiamo il sovrappeso nelle azioni e nelle obbligazioni societarie high yield. L’economia mondiale dovrebbe continuare a essere sostenuta dalle politiche monetarie di stimolo alla crescita di breve periodo. Le società dell’Eurozona sono particolarmente favorite da un deprezzamento dell’euro, dai bassi costi di rifinanziamento del debito e dall’accelerazione congiunturale della regione. Le azioni dell’Eurozona sono la nostra classe di attivi preferita nel nostro orizzonte d’investimento a sei mesi.

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