L’oro nero dopo la bonifica del mercato

Di Christophe Bernard, Chief Strategist di Vontobel

Per molti anni il “picco del petrolio” è stato considerato un fatto ineluttabile. Tutti ripetevano come un mantra che le risorse petrolifere si sarebbero presto esaurite. Nel frattempo, però, le nuove tecnologie che permettono di estrarre petrolio e gas dalle rocce di scisto hanno scombussolato il mercato dell’energia e riportato sulla scena gli Stati Uniti come importante produttore. Questi cambiamenti hanno chiamato in causa l’Arabia Saudita, maggiore produttore all’interno dell’OPEC, inducendola ad aumentare i suoi volumi di estrazione per preservare la sua quota di mercato. È solo di recente che Riad ha acconsentito a tagliare la produzione petrolifera. Secondo le nostre previsioni, il prezzo del petrolio dovrebbe assestarsi a 50-55 dollari USA al barile, ma ha un potenziale di rialzo sul medio termine.

La fratturazione idraulica o “fracking” – il nuovo metodo inventato negli USA per estrarre dalle formazioni rocciose giacimenti di petrolio e gas altrimenti inaccessibili – è passata inizialmente inosservata, almeno fino a quando non ha rivoluzionato l’intero settore. Questa tecnologia, che ha consentito agli USA di liberarsi dalla loro dipendenza dalle importazioni di petrolio, ha un impatto altrettanto importante come le auto senza conducente o le applicazioni per ordinare un taxi.

L’espansione dell’attività estrattiva americana ha avuto però anche un effetto indesiderato dal punto di vista dei produttori: il calo delle esportazioni verso gli USA ha infatti scatenato un’acerrima lotta per la conquista di fette di mercato. L’Arabia Saudita, il maggiore produttore all’interno dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), era solita adeguare il suo volume di estrazione alle fluttuazioni della domanda. Nel novembre 2014 ha deciso di prendere le distanze dalla sua tradizionale politica e ha rifiutato di tagliare la produzione per rispondere alla sovrabbondanza di offerta. In questo modo ha abbandonato il suo ruolo storico di “swing producer”, che riequilibrava il mercato mondiale aprendo o chiudendo il rubinetto delle forniture di greggio. Perché, quale produttore a basso costo, rinunciare a quote di mercato e aiutare così i concorrenti americani confrontati a costi più elevati? Questa era la logica alla base del nuovo approccio di Riad. La conseguenza: tra metà 2014 e gennaio 2016 il prezzo del greggio West Texas Intermediate (WTI) è sceso da 100 dollari a meno di 30 dollari USA al barile.

È fuori dubbio che la nuova strategia dell’Arabia Saudita ha contribuito al collasso dei prezzi del greggio. Esaminiamo ora le conseguenze:

  1. Il calo del prezzo del petrolio ha indotto le società energetiche a cancellare e/o rinviare i loro programmi di esplorazione a lungo termine per un valore di circa 1000 miliardi di dollari USA. Inoltre ha causato un notevole taglio dei bilanci di investimento, che da 700 miliardi di dollari nel 2014 sono passati a 400 miliardi nel 2016. Negli USA il numero dei pozzi di trivellazione è sceso dell’80 percento tra metà 2015 e maggio 2016, mentre la scoperta di nuovi giacimenti su scala mondiale dovrebbe toccare quest’anno un nuovo minimo storico degli ultimi 70 anni.
  2. L’industria petrolifera, in generale, e il settore shale americano, in particolare, non avevano altra scelta che abbattere notevolmente i loro costi e aumentare la produttività se volevano sopravvivere. I risultati sono davvero impressionanti: i costi di produzione unitaria nel ramo shale americano sono diminuiti del 40 percento negli ultimi 18 mesi grazie a standardizzazioni, semplificazioni e pressioni sui fornitori. All’attuale livello di 50 dollari al barile, gli operatori del Bacino Permiano del Texas riescono a coprire i loro costi. Di conseguenza, il numero delle trivelle è tornato a salire il che indica una stabilizzazione a breve termine della produzione americana. Un elemento essenziale è che, dopo un’ondata di insolvenze tra le società più deboli, gli operatori shale più solidi continuano ad avere accesso al credito, soprattutto sul mercato americano delle obbligazioni societarie ad alto rendimento. Grazie alla sua forza e alle sue dimensioni, il mercato finanziario americano permette alle imprese sane di continuare a finanziare la loro attività, impendendo un crollo della produzione USA.
  3. Di fronte a un aumento del deficit di bilancio, che nel 2017 ha raggiunto il 16 percento del PIL ed è stimato al 12 percento nel 2016, l’Arabia Saudita ha dovuto compiere un voltafaccia. Riad ha dovuto inoltre constatare che il settore shale americano è più resistente del previsto. Alla riunione dell’OPEC di Algeri, il paese ha appoggiato il piano dell’organizzazione (che dovrà essere concretizzato alla seduta di Vienna del 30 novembre) di ridurre la produzione dagli attuali 33,5 milioni di barili a un volume variabile tra 32,5 e 33 milioni di barili al giorno e allo stesso tempo consentire all’Iran di ritornare ai livelli antecedenti alle sanzioni (circa 4 milioni di barili al giorno). L’onere di questa operazione dovrà essere sostenuto da Riad, tanto più che altri grandi produttori dell’OPEC come Iraq, Libia e Nigeria non sono disposti a diminuire la loro produzione. Nel complesso, il “regno del deserto” ha accusato un duplice colpo: ha sottovalutato la forza del settore shale americano e sopravvalutato la sua capacità di sostenere un periodo prolungato di prezzi del petrolio estremamente bassi.

Domanda di petrolio ancora in aumento

Di conseguenza prevediamo che il prezzo del petrolio si muoverà in un range ristretto di 50-55 dollari USA nel prossimo futuro, con una buona probabilità di sforare al rialzo questa soglia sul più lungo periodo. Il motivo è che, nonostante il recupero, i prezzi non incentivano abbastanza le imprese a sfruttare nuovi giacimenti. Allo stesso tempo il petrolio rimane un bene molto richiesto: la domanda cresce ogni anno in media di 1 milione di barili al giorno. L’impatto delle auto elettriche sui consumi di carburante non si farà sentire prima del 2025. Per i mercati finanziari, la stabilizzazione del prezzo del petrolio a circa 50 dollari USA è chiaramente positiva. Ciò vale soprattutto per i paesi esportatori, le relative valute e il settore petrolifero.

Inoltre, il rimbalzo dei prezzi del petrolio inizia a stimolare l’inflazione primaria in molte regioni, attenuando i timori di deflazione mondiale. Se (con un grosso accento sul “se”) questo dato avrà un impatto anche sulle cifre dell’inflazione “core”, esso potrà aiutare le banche centrali a raggiungere i loro obiettivi di inflazione e consentire una normalizzazione delle politiche monetarie. Manteniamo la nostra posizione neutrale sui mercati azionari anche se l’esito delle elezioni americane sembra meno incerto rispetto a un mese fa. Restiamo invece sottopesati nei titoli di Stato, il cui profilo rendimento-rischio è sempre meno allettante sullo sfondo della stabilizzazione della crescita mondiale e delle prospettive di inflazione.

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