Mercati finanziari ancora alle prese con i postumi di Capodanno?

di Mark Burgess, responsabile azionario globale di Columbia Threadneedle Investments

I mercati azionari globali hanno iniziato il 2016 su una nota negativa: l’indice MSCI World ha ceduto il 5,2% in termini di rendimento totale in dollari dalla chiusura delle contrattazioni del 31 dicembre 2015 a quella del 7 gennaio 2016.

Questa correzione è stata imputata a numerosi fattori, tra cui la persistente debolezza della valuta e delle piazze azionarie cinesi, il calo dei prezzi del petrolio, il deterioramento delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran e alcuni dati economici deludenti. Questi temi, però, non sono una novità; come si spiega allora la pessima reazione dei mercati degli ultimi giorni?

Noi riteniamo che dopo una fase di volatilità artificialmente contenuta (causata in gran parte dal QE) i mercati fossero divenuti un po’ troppo autocompiaciuti: nonostante un’espansione economica estremamente ridotta e una modesta crescita degli utili, si era registrato un aumento delle valutazioni azionarie.

Fino al recente passato i mercati potevano dormire sogni tranquilli sapendo di poter attingere alla coppa del QE, che avrebbe spinto al rialzo i prezzi delle attività riducendo al contempo la volatilità. Il QE era l’alta marea che sollevava tutte le barche. In effetti, tale era la potenza del QE che molti operatori consideravano le “cattive” notizie sul fronte economico alla stregua di “buone” notizie, poiché avrebbero comportato ulteriori acquisti di attività e ulteriore sostegno ai prezzi degli asset.

Adesso viviamo in un mondo in cui le cattive notizie sono effettivamente tali, perché gli strumenti di politica monetaria hanno esaurito la propria efficacia e la Fed desidera alzare i tassi, sia pur in modo graduale. Inoltre, il contesto geopolitico continua a peggiorare con una rapidità tale da cogliere alcuni investitori di sorpresa.

Sinora i mercati azionari hanno avuto un anno da dimenticare. L’ultima ondata di volatilità è giunta dalla Cina, dove una nuova svalutazione della divisa da parte della banca centrale ha causato il crollo delle borse e attivato i “circuit breaker” (interruttori di circuito), che hanno costretto a sospendere le contrattazioni sul mercato azionario nazionale per la seconda volta in una settimana. Le apprensioni sulla Cina si sono propagate ad altri mercati asiatici, dove la debolezza del renminbi ha suscitato il timore che i concorrenti regionali del colosso asiatico potessero essere costretti ad attuare svalutazioni mirate a preservare la propria competitività.

I timori sulla Cina non sono una novità e in effetti suggeriamo da tempo che il continuo rallentamento dell’economia cinese avrebbe comportato difficoltà non solo per gli investitori dei mercati asiatici ed emergenti, ma per i mercati finanziari a livello globale. La dura realtà per gli investitori è che la decelerazione della Cina sarà un fenomeno di durata pluriennale e che la valuta cinese dovrà necessariamente deprezzarsi ancora per assicurare al paese una ragionevole possibilità di orchestrare un atterraggio morbido. Le valute emergenti si sono generalmente indebolite negli ultimi anni, ma non è così per lo yuan, che è rimasto ancorato al dollaro.

La situazione in Medio Oriente è molto più difficile da decifrare: sul piano economico non ha alcun senso che l’Arabia Saudita continui a pompare petrolio ai prezzi correnti (il 7 gennaio il Brent è sceso a quasi 32 dollari al barile). Tuttavia, vi sono in gioco fattori geopolitici.

Le basse quotazioni petrolifere favoriscono l’Arabia Saudita per diverse ragioni:

  • Il calo dei prezzi esercita pressioni sui produttori di gas di scisto statunitensi, dando ai sauditi la possibilità di riaffermare (per tempo) la propria posizione di “swing producer” a livello globale.
  • L’Iran sta facendo ritorno sui mercati globali del petrolio dopo anni di sanzioni. Iran e Arabia Saudita si contendono la supremazia della regione e combattono guerre indirette da molti anni, quindi è ragionevole per i sauditi fare di tutto per assicurarsi che gli iraniani ricavino il meno possibile dalla vendita di petrolio.
  • I bassi prezzi del petrolio penalizzano la Russia, la cui economia è molto sensibile alle quotazioni dell’oro nero. La Russia è un alleato dell’Iran e un importante concorrente dell’Arabia Saudita sui mercati del petrolio.
  • In un’ottica di più lungo termine, il mondo è impegnato a ridurre le emissioni di carbonio, per cui si potrebbe affermare che l’Arabia Saudita stia razionalmente sfruttando i propri giacimenti di petrolio finché questo ha ancora un valore. Questa posizione, ancorché estrema, rispecchia il fatto che diversi investitori istituzionali hanno liquidato le proprie partecipazioni in compagnie petrolifere e settori collegati per ragioni legate al cambiamento climatico e alla governance.

A complicare il quadro che abbiamo descritto, il conflitto tra Arabia Saudita e Iran ha assunto adesso dimensioni pubbliche, in quanto Riyad ha tagliato ogni rapporto diplomatico con Teheran dopo che l’ambasciata saudita in Iran è stata attaccata da manifestanti. Analoghe misure diplomatiche sono state prese dagli alleati dell’Arabia Saudita nella regione.

Quali sono le implicazioni di tutto questo dal punto di vista dell’asset allocation? A mio parere, il processo di ribilanciamento della Cina è destinato a durare a lungo, e dato che gli investitori internazionali usano Hong Kong per coprire le proprie posizioni in Cina, la vendita indiscriminata di società di alta qualità con solide prospettive di crescita nelle fasi di turbolenza sui mercati dovrebbe creare opportunità per gli investitori attivi. Gli investitori dovrebbero prepararsi a un ulteriore indebolimento del renminbi, che susciterà inevitabilmente apprensioni per altre svalutazioni nel resto dell’Asia. Tali svalutazioni avrebbero effetti deflazionistici, e una persistente spinta al ribasso sui prezzi è senz’altro sgradita in una fase in cui la Fed vorrebbe innalzare i tassi, che si trovano ancora a livelli di emergenza. I titoli di Stato di alta qualità hanno guadagnato terreno durante la fase di volatilità e dovrebbero trovare ulteriore sostegno qualora riaffiorassero i timori di deflazione.

Quanto alle azioni, ritengo che la parte agevole del tragitto sia stata già percorsa e che il successo in futuro dipenderà tanto dalla capacità di evitare le insidie quanto da quella di scovare i titoli vincenti. Esaminando il periodo successivo alla crisi finanziaria, gli storici della finanza potrebbero ravvisare nel 2009-2014 la fase dei guadagni “facili”, nella quale i prezzi delle attività hanno ricevuto impulso da tassi d’interesse storicamente contenuti e da un’abbondante liquidità. Il 2015 è stato il primo anno in cui le scommesse sui rialzi delle quotazioni e gli “acquisti sui cali” non hanno dato grossi frutti. Si è assistito quindi a un ritorno alla normalità, nella quale i prezzi delle attività evidenziano un andamento casuale e talvolta volatile. Per chi investe in un’ottica di lungo termine ciò non costituisce una novità né un motivo di preoccupazione, ma gli investitori con una memoria più breve potrebbero aver dimenticato le ampie fluttuazioni dei mercati azionari che rappresentavano la norma prima dell’avvento del QE.

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