Mercati inquinati da una miscela tossica di politica e politiche

A cura di Joseph V. Amato, President and Chief Investment Officer – Equities di Neuberger Berman

Sto per terminare le letture che avevo scelto per l’estate, con una fantastica, nuova biografia del generale George Marshall, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale, in seguito divenuto segretario di stato. Il Piano Marshall da lui ideato fu una delle grandi iniziative pubbliche ed economiche del secolo scorso. Quanto mi piacerebbe vedere simili esempi di leadership al giorno d’oggi.

Diamo un’occhiata alla Federal Reserve, dove esponenti politici di ogni schieramento, infrangendo convenzioni di lunga data, hanno cercato di influenzare i processi decisionali della banca centrale. Per anni, un tratto distintivo degli Stati Uniti è stata una banca centrale forte, indipendente e apolitica, coerente con le proprie politiche monetarie anche quando queste non erano quelle auspicate dall’esecutivo.
Nei primi anni ottanta, Paul Volcker fu impegnato nel compito assai difficile ma importantissimo di mettere sotto controllo un’inflazione galoppante, aumentando in modo aggressivo i tassi di interesse, persino quando l’allora presidente Ronald Reagan sosteneva la necessità di ridurre drasticamente le tasse. Nonostante il periodo risentisse di una forte recessione, non si udì mai la Casa Bianca chiamare in causa il presidente della banca centrale né offenderlo, poiché comprendeva la missione della Fed e l’importanza della sua indipendenza.

Più di recente, Ben Bernanke ha collaborato strettamente con l’amministrazione Bush e, in seguito, con l’amministrazione Obama per trovare una via d’uscita dalla crisi del 2008, instaurando un rapporto saldo e costruttivo proseguito poi, alla fine del suo mandato, dal presidente della Fed subentrante, Janet Yellen. Neppure nell’accidentato periodo della ripresa iniziale dopo la crisi finanziaria ci fu chi tacciò la Fed di essere nemica dello Stato.

Nel clima di oggi, questi precedenti non fanno più testo. Immerso fino al collo nella controversia commerciale tra Cina e Stati Uniti e nell’escalation dei dazi doganali, Trump ha rivolto più volte pesanti critiche al presidente della Fed Jerome Powell, invitandolo pubblicamente a ridurre i tassi e ad adottare misure di allentamento quantitativo per sostenere l’economia. Quando, a Jackson Hole, Powell ha parlato di politiche accomodanti senza però promettere tagli aggressivi ai tassi, Trump è esploso su Twitter chiedendo se per gli Stati Uniti il presidente della Fed non fosse un “nemico” peggiore del presidente cinese Xi.

Tale esternazione, naturalmente, è giunta lo stesso giorno in cui la Cina ha risposto alla minaccia di escalation dei dazi statunitensi varandone dei suoi su altre merci americane per 75 miliardi di dollari, una decisione alla quale Trump ha reagito, invitando le società in affari con la Cina a cambiare partner, con un tweet dal tono assurdo (“Con il presente ordino che…”).

Nuova realtà

Diciamo subito che sono in molti a ritenere che la Fed abbia commesso un errore, aumentando i tassi lo scorso dicembre, e che abbia risposto troppo lentamente alle pressioni globali nel corso del 2019. E si potrebbe sostenere che Trump non abbia avuto tutti i torti a far notare l’errore, chiedendo semplicemente una correzione di rotta nel suo ormai noto stile sopra le righe.

In effetti, molti di noi si sono ormai abituati a guardare oltre i toni al vetriolo degli scambi verbali nell’arena politica odierna e i collaboratori della Casa Bianca cercano di rassicurarci di questo fatto, ripetendo continuamente che simili dichiarazioni non vanno prese troppo alla lettera. Tuttavia, credo sia importante osservare quanto ci siamo allontanati dagli standard che avevano contribuito a dare credibilità alle nostre istituzioni e consentito al governo di compiere passi avanti verso la realizzazione di traguardi importanti.

Il discorso vale sia per le parole che per i fatti. Alcuni decenni fa, era abbastanza consueto che i governi utilizzassero i tassi di interesse come una leva economica di breve termine, anche se le ripercussioni di lungo termine erano la svalutazione della moneta e l’aumento eccessivo dell’inflazione. Gradualmente, si è sempre più diffusa l’idea che le banche centrali dovessero operare in maggiore autonomia, anche se guidate ad alti livelli da view politiche. Ci sono eccezioni e i mercati solitamente le penalizzano, come ha scoperto all’inizio dell’estate il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan quando, dando il ben servito al governatore della banca centrale, ha causato il fuggi fuggi degli investitori. Le attuali tattiche di Trump chiaramente non raggiungono simili estremi (o, perlomeno, non ancora), ma sono comunque sconcertanti.

Tanto per peggiorare la situazione

Questo “rendere pan per focaccia” politico ha sorprendentemente attirato l’intervento di voci non tradizionali. La settimana scorsa, l’ex presidente della Fed di New York Bill Dudley ha rilasciato dichiarazioni piuttosto scioccanti, sostenendo non solo che la Fed dovrebbe rifiutarsi di ridurre i tassi per “seguire il gioco” della guerra commerciale scatenata da Trump, ma anche che la banca centrale dovrebbe considerare l’impatto politico prodotto dalle proprie azioni nel 2020 alla luce della minaccia che, secondo Dudley, Trump costituisce per l’economia.

È lampante che tali parole si discostano radicalmente dalla tradizione apolitica della Fed e danneggiano notevolmente l’istituto, rafforzando l’idea nutrita da alcuni che le politiche monetarie siano inficiate da un pregiudizio anti-Trump. Giustamente, Dudley è stato duramente criticato e ci auguriamo di non udire più simili dichiarazioni.

Cosa ci aspetta

C’è un modo di uscire da questo ginepraio? Esiste un percorso in grado di riportarci ad una dimensione di maggior normalità? Innanzitutto, deve prevalere il buonsenso. E se qualcuno desidera aggiungersi alla caciara, sarà meglio che ci pensi due volte prima di aprire bocca, scrivere o twittare. In secondo luogo, i politici dovrebbero non interferire con la Fed e lasciarle fare il suo lavoro. La Fed, dal canto suo, deve restare indipendente e fare ciò che è giusto in base a quanto prevede il suo mandato.

In ultima analisi, è una questione di leadership, sia da parte di una Fed indipendente, sia da parte dell’esecutivo statunitense, sia da parte di coloro che possono influenzare il dibattito in corso e cercare di trovare soluzioni costruttive e innovative in un quadro lacerato dai contrasti geopolitici. Le azioni di George Marshall furono fondamentali per ricostruire l’Europa e instaurare un ordine mondiale che avrebbe incoraggiato la crescita e la democrazia per decenni a venire. Per molti versi, le sfide che oggi dobbiamo affrontare sono parecchio modeste se confrontate a quelle di 70 anni fa. Ma la necessità di una vera leadership è esattamente la stessa.

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