Moneyfarm: commissioni di performance, problema sistemico dell’industria del gestito

Partendo dai primi 10 gruppi finanziari per masse gestite secondo Assogestioni, la società internazionale di gestione digitale del risparmio Moneyfarm ha selezionato i primi cinque gruppi italiani che sono sia produttori che distributori di fondi al fine di analizzare il peso delle commissioni di performance all’interno dei loro bilanci.
 
Principali rilevazioni
Nel 2017, fino a un quinto dei ricavi da commissioni dei primi 5 gruppi finanziari italiani attivi nella produzione e distribuzione di fondi (Azimut, Banca Mediolanum, Banca Generali, UBI Banca, Intesa San Paolo) è derivato dalle commissioni di performance. Queste hanno contribuito a sostenere le casse di ogni gruppo analizzato, arrivando a pesare mediamente il 60% rispetto agli utili della maggior parte di questi gruppi. Inoltre, più di un terzo della somma investita complessivamente in fondi (ca. 1.000 miliardi di euro) è investito in fondi italiani domiciliati all’estero (Lussemburgo e Irlanda). Queste sono alcune delle principali rilevazioni dell’Osservatorio sulle Commissioni di Performance a cura del Centro Studi Moneyfarm.
 Le commissioni di performance rappresentano una voce di costo variabile e complessa, rendono problematica la valutazione ex ante della struttura commissionale di uno strumento di investimento, e inoltre, possono disallineare l’interesse dell’investitore da quello del gestore, incentivando dinamiche di azzardo morale. La Banca d’Italia, conoscendo queste criticità, ha posto dei limiti molto stringenti alle commissioni di performance con l’obiettivo di ridurre le applicazioni improprie.
Questi limiti sono spesso aggirati attraverso la pratica di domiciliare i fondi in Paesi esteri, dove le regolamentazioni, almeno fino a oggi, sono state più lasche. Tra le pieghe di questa disarmonia legislativa abbiamo dunque visto le commissioni di performance assumere sempre maggiore importanza nel modello commissionale dei maggiori operatori finanziari italiani. Infatti, dei circa 1.000 miliardi di euro investiti complessivamente in fondi, oltre 300 miliardi sono investiti in fondi di diritto estero (solitamente in Irlanda e Lussemburgo), gestiti però da società italiane.
La Consob nel 2015 era già intervenuta e di recente anche la banca centrale irlandese ha denunciato la diffusione di pratiche di applicazione distorta per i fondi domiciliati sull’isola (che resta uno dei principali approdi dei fondi domiciliati in Italia).
 
Analisi della situazione italiana
 L’industria del risparmio italiana, soprattutto negli ultimi anni, ha fatto ampio utilizzo delle commissioni di performance, tanto che esse sono diventate una delle sue principali fonti di ricavo: occupano una posizione strategica nel modello di business di molti operatori. Per comprendere il peso delle commissioni di performance siamo partiti dai primi 10 gruppi finanziari per masse gestite secondo Assogestioni e abbiamo selezionato i primi cinque gruppi italiani che sono sia produttori che distributori di fondi al fine di analizzare il peso delle commissioni di performance all’interno dei loro bilanci. Abbiamo pertanto selezionato Azimut, Banca Generali, Banca Mediolanum e i gruppi Fideuram e UBI Banca e isolato il dato delle singole società perché a livello aggregato il peso delle commissioni di performance non emerge con altrettanta chiarezza.
Nel 2017 il peso relativo alle commissioni di performance sul totale delle commissioni attive è aumentato a livello aggregato rispetto al 2016. Il dato conferma l’importanza di questo tipo di commissioni nel modello di alcuni dei principali asset manager italiani, anche se queste vanno a impattare direttamente e negativamente sul risultato finale del cliente.
Maggiori commissioni (sia per ammontare che per frequenza) corrispondono a maggiori prelievi sull’investimento e quindi a minori rendimenti netti. Secondo Banca d’Italia il prelievo complessivo annuale su un fondo comune bilanciato sarebbe stato di quasi il 2,4% negli ultimi 3 anni di rilevazione e di oltre il 2,5% nel caso di fondi flessibili.[2] Valori percentuali tutt’altro che irrilevanti sia in termini assoluti, che in relazione al livello attuale dei tassi di interesse.
 
Utili sì, ma non per il cliente
Per apprezzare al meglio l’importanza di questo tipo di introiti nell’ambito del modello di business dei principali gestori, un metro di valutazione può essere il paragone tra il valore delle commissioni di performance e gli utili delle aziende in analisi. Nel 2016 e nel 2017 le commissioni di performance, in proporzione agli utili, sono rimaste più o meno invariate, con pesi maggiori del 55% per tre dei 5 gruppi analizzati.
 
L’anno del cambiamento
A partire dal primo trimestre 2019 diventeranno effettive le disposizioni della normativa MiFID II che impongono agli intermediari maggiore trasparenza e chiarezza nella comunicazione dei costi. In particolare la normativa, in uno dei suoi provvedimenti più rilevanti, stabilisce che le commissioni per i servizi di consulenza e di gestione siano ammissibili solo qualora siano a) legate a una remunerazione oggettiva del servizio (commissioni corrisposte dal cliente), b) volte ad accrescere la qualità del servizio fornito al cliente, c) evidenziate ex-ante, d) rendicontate dall’intermediario in qualità di beneficiario/erogatore dell’incentivo.
La MIFiD II impone, inoltre, che i costi debbano essere comunicati in modo esplicito e dettagliati in tutte le varie voci (costi del servizio, costi associati al prodotto, commissioni di retrocessione), sia in termini percentuali sia in termini monetari. La trasparenza della comunicazione deve riguardare tutte le fasi del rapporto e comprendere l’invio almeno trimestrale di comunicazioni.

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