Opec e Shale Oil, in rotta di collisione?

Di T. Heltman e J. Wyll del team Global equity research di Neuberger Berman

Dopo la proroga ai tagli di produzione deliberata dall’OPEC e la resilienza dimostrata dai produttori statunitensi di shale oil, il settore petrolifero è tornato alla ribalta. Gli autori di questa settimana, esperti analisti del settore energetico per il nostro team Global Equity Research, valutano gli sviluppi recenti e quelli che potrebbero essere gli sviluppi futuri. Lo scorso novembre, l’OPEC ha sorpreso anche i piú scettici riguardo le sorti del petrolio concordando un considerevole taglio della produzione, una riduzione a cui si sono aggiunti ulteriori tagli da parte di produttori non facenti parte dell’organizzazione, come la Russia. Il successivo rally, collegato anche al clima di fiducia che ha accompagnato la vittoria elettorale di Trump, ha riportato i corsi petroliferi ad un livello più redditizio di 50 dollari al barile, avvicinandosi addirittura ai 60 dollari.

L’ottimismo, però, è durato piuttosto poco. L’aumento dei prezzi ha tenuto per qualche mese, ma davanti alla significativa risposta dei produttori di shale oil statunitensi (e il rinnovato timore di un eccesso di offerta globale) i mercati hanno assunto un orientamento più pessimista. La recente decisione dei paesi produttori di petrolio, sia aderenti all’OPEC che non, di prorogare di altri nove mesi la riduzione della produzione é stata accolta con delusione, poiché le aspettative erano di un aumento dei tagli o di una loro proroga sine die.

Quindi, che futuro ci aspetta? Ancora una volta, gli occhi sono puntati sui due attori principali del mercato petrolifero: l’OPEC e le società statunitensi produttrici di shale oil.

L’efficienza figlia delle crisi

Per comprenderne i motivi, è necessario esaminare l’origine della recente turbolenza. Tra il 2015 e il 2016, l’OPEC ha seguito una politica aggressiva di aumento della produzione, per conquistare nuove quote di mercato e contrastare la concorrenza. Conseguenza netta di ciò è stato un’accumulo di scorte record a livello globale e un ribasso dei corsi petroliferi, che hanno messo in crisi il settore, causando il fallimento dei produttori più indebitati e con i costi di produzione più elevati. Viceversa, le società a basso costo del Nord America, in particolare quelle del Bacino Permiano, si sono rivelate inaspettatamente resilienti e sempre più efficienti nell’estrazione del petrolio e del gas. Il fenomeno è riconducibile all’aumento di efficienza e ai progressi tecnologici del settore, di natura sia ciclica che strutturale, che hanno consentito alla produzione di crescere. Alla fine, i produttori a basso costo di shale oil sono sopravvissuti, mentre le difficoltà generate dall’aumento delle scorte, riconducibili alle politiche dell’OPEC che hanno portato al ribasso del prezzo del petrolio, hanno indotto quest’ultima a deliberare un taglio della produzione a novembre.

In aggiunta all’aumento dell’efficienza dei produttori statunitensi, i tagli dell’OPEC hanno provocato una seconda – forse involontaria – conseguenza. L’accordo dell’OPEC, infatti, è stato un vero e proprio assist e segnale di via libera per i produttori di energia statunitensi che avevano già iniziato ad accelerare le attività grazie all’ampia accessibilità ai mercati dei capitali (sfruttati per superare difficoltá nei finanziamenti, rafforzare i bilanci e, in ultima analisi, far ripartire i piani di crescita) e grazie anche al rimbalzo dei prezzi dopo i minimi di inizio 2016. Il settore statunitense dello shale oil, oggi a basso costo e ben capitalizzato, sembra sulla strada giusta per aumentare la produzione di petrolio di circa 1 milione di barili al giorno nel IV trimestre 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. In un quadro ancora caratterizzato da elevati livelli di scorte, tale crescita ha inquietato gli investitori e forzato nuovamente la mano dell’OPEC il mese scorso.

Problema irrisolto

La decisione dell’OPEC di confermare i tagli alla produzione aiuta sicuramente le dinamiche della domanda e dell’offerta, ma presenta una problematica di fondo e cioè che i tagli non sono permanenti. Per questo motivo, è possibile che nel 2018 possano ritornare sul mercato fino a 1,5 milioni di barili al giorno. Per ora, l’OPEC non ha elaborato formalmente una exit strategy dettagliata per il proprio programma. Per di più, la Libia e la Nigeria, che non hanno sottoscritto l’accordo originale, rimangono due variabili imprevedibili nell’equazione della produzione. A ciò va aggiunto, come abbiamo detto, il potenziale di un ulteriore milione di barili al giorno di shale oil: ecco servita la ricetta per un nuovo eccesso di offerta di petrolio, anche se il quadro della crescita globale (e quindi della domanda) si mantiene positivo.

In un mondo ideale (che molti rialzisti riguardo al petrolio continuano a prospettare), costi piú elevati e una produzione ancor più marginale (off-shore e convenzionale) dovrebbero contribuire a ridurre la produzione, anche a causa degli scarsi investimenti e della cancellazione dei progetti negli ultimi tre anni. Ancora una volta, però, la resilienza del settore petrolifero potrebbe essere stata sottostimata: la produzione in Brasile, Mare del Nord, Canada e Golfo del Messico, tanto per citare alcuni esempi, è continuata a crescere grazie ai progetti di lungo termine avviati durante il boom del 2011-2014, che ancor oggi si fanno sentire sul mercato. Questa crescita ha compensato il declino registrato in altre parti del mondo, come il Messico, la Colombia e la Cina. Inoltre, i “superproduttori” globali hanno migliorato le strutture di costo, riducendo la spesa e mantenendo finora i livelli di produzione se non altro invariati. Tutto ciò lascia solo due opzioni: o l’OPEC proroga i tagli oppure si lasciano agire le pressioni del mercato sui produttori di shale oil meno efficienti nel ridurre i costi. In ogni caso, siamo lungi dal prospettare uno scenario apocalittico. In base a tutti questi fattori, riteniamo che una fascia di prezzo ragionevole nel medio termine possa essere quella compresa tra i 40 e i 60 dollari al barile, dove l’operato dell’OPEC probabilmente difenderà il limite inferiore e la crescita dello shale oil delimiterà quello superiore. Tuttavia, come accade da sempre con il petrolio, shock inaspettati possono spingere il prezzo sopra o sotto alle fasce attese.

Per gli investitori, la struttura dei costi e la tecnologia sono elementi fondamentali

A prescindere da chi manderà il primo segnale (aumento dei costi da parte dell’OPEC o riduzione dell’attività da parte dei produttori di shale oil), è importante ricordare che una maggiore efficienza nei costi strutturali è in grado di compensare notevolmente una flessione dei prezzi. Come ha dichiarato un dirigente del settore petrolifero: “I cinquanta dollari di oggi sono i novanta dollari di ieri”. In altre parole, le società si stanno focalizzando sempre più sullo snellimento delle strutture di costo e sull’utilizzo delle nuove tecnologie per ridurre i costi di estrazione. Mai come ora, quindi, la selezione dei titoli è stata così importante. Riteniamo che il compito degli investitori azionari sia di individuare le società del settore energetico con le strutture di costo più snelle e sostenibili nonché i leader tecnologici che continuano a incrementare l’efficienza. Questi fattori potrebbero agevolare la navigazione in un contesto di mercato sfavorevole.

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