Opportunità e limiti di un mini-accordo Cina-Usa

I mercati stanno dando molto peso ai negoziati tra Cina e Stati Uniti. C’è l’idea che un accordo possa fare ripartire il commercio internazionale e quindi la crescita globale e di conseguenza il grande rialzo azionario. Dietro questa visione si intravede l’idea che l’economia globale sarebbe in buona salute se solo si sistemasse questa spiacevole questione.

Al tempo stesso si pensa che una rottura e un nuovo ciclo di rialzi tariffari potrebbero essere catastrofici per economie e mercati. Dietro questa visione c’è evidentemente l’idea che l’economia globale è così fragile da potere entrare in crisi da un momento all’altro se Cina e Stati Uniti dovessero di nuovo dare vita a una fase di ostilità conclamata.

Come è possibile avere nello stesso momento l’idea di un’economia potenzialmente solida e quella di un’economia così fragile da rischiare di entrare in crisi per un aumento dei dazi del 5% che verrebbe introdotto subito o, in alternativa, sarebbe rinviato a dicembre?

Una prima spiegazione è che l’economia globale si trova in un punto intermedio tra salute e malattia. Cresce ancora ma è in decelerazione. Cresce ancora ma poco. Fino a qualche tempo fa si sarebbe data una lettura esclusivamente positiva di questa situazione. La si sarebbe chiamata Goldilocks, ovvero né troppo calda né troppo fredda, e ci si sarebbe augurati un proseguimento all’infinito di questo moderato tepore.

Una seconda spiegazione è che sia coloro che mettono l’accento sulle opportunità sia quelli che lo mettono sui rischi condividono più o meno consapevolmente l’idea che siamo a fine ciclo. Una polmonite a vent’anni è uno spiacevole episodio, a novant’anni può decidere tra la morte e la vita.

Benché queste due spiegazioni abbiano senso, pensiamo comunque che i mercati sopravvalutino l’importanza delle trattative in corso e le vedano come risolutive o meno del conflitto. In realtà, la novità di questo ciclo di negoziati è che, invece di aspirare a un accordo quadro di settecento pagine come quello che si stava profilando prima dell’ultima rottura, si è deciso questa volta di circoscrivere i temi a questioni molto pratiche e di reciproco interesse.

Alla Cina piagata dalla peste suina interessa comprare proteine sostitutive sotto forma di soia americana. A Trump, che deve farsi rieleggere negli stati agricoli che questa soia la producono, interessa venderla.

All’America che vuole riequilibrare il deficit commerciale con la Cina interessa un renminbi che non venga manovrato aggressivamente al ribasso per compensare i dazi. Alla Cina interessa un renminbi certamente non forte ma nemmeno così debole da rischiare di rimettere in moto una fuga di capitali dalla Cina e da compromettere le aspirazioni di lungo termine di creare una valuta di riserva alternativa al dollaro.

Questi sono quelli che in inglese vengono definiti i low hanging fruit, la frutta che si raccoglie per prima perché è a portata di mano e non richiede di chinarsi o di salire su una scala. Il rinvio a data da destinarsi del rialzo dei dazi previsto da Trump completerebbe il pacchetto e offrirebbe opportunità fotografiche con strette di mano e volti sorridenti con sullo sfondo mercati entusiasti.

In pratica invece di un grande accordo tutto in una volta si venderebbe all’opinione pubblica e ai mercati la possibilità di un percorso a tappe. Questo toglierebbe dalle spine sia Trump sia Xi, che in caso di accordo generalizzato verrebbero inevitabilmente accusati, a casa loro, di avere ceduto qualcosa all’avversario. Al contrario, in caso di accordo su pochi temi concreti e con la vaga promessa di continuare le trattative su tutto il resto, sarebbe più difficile attaccarli.

Non vogliamo certo minimizzare l’importanza di un accordo circoscritto e di una tregua commerciale, ma vogliamo ricordare che, dietro alla soia e alla stabilità del renminbi, si è aperto in questi giorni un nuovo enorme tema di conflitto strategico tra Stati Uniti e Cina. Se fino a oggi Trump e il Congresso si erano spesi in un attacco al modello economico cinese, con i suoi aiuti di stato e il permanere delle grandi imprese pubbliche come soggetti economici al riparo della concorrenza, da qualche giorno si attacca la Cina anche sui diritti umani, un’area che l’America era stata finora molto attenta a evitare.

Se fino a due anni fa la Cina era un partner stimolante che prima o poi si sarebbe convertito al modello liberale occidentale proprio in virtù della sua crescita e se fino all’altro giorno era un competitore sleale e irriformabile (come agli occhi di Trump è anche l’Europa), da oggi la Cina è un avversario politico, ideologico, economico e in prospettiva militare a tutti gli effetti. Si può anche vendere soia al diavolo, ma una volta che un avversario è stato demonizzato è difficile tornare indietro.

Ma ogni giorno ha la sua croce e per l’immediato il sollievo dei mercati, in caso di miniaccordo, sarà evidente e darà il tono fino alla fine dell’anno. Più avanti, sulla base dei dati, capiremo se l’incertezza legata al conflitto tra Cina e Stati Uniti è stata davvero la causa del rallentamento degli ultimi trimestri o se è stata invece una comoda scusa per coprire altri problemi.

Per il momento rimaniamo investiti anche in caso di rottura delle trattative in corso. Sarà nei primi mesi dell’anno prossimo che considereremo un ridimensionamento delle posizioni, più sulla base delle prospettive politiche americane che del contenzioso con la Cina.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners

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