Petrolio: dinamiche di mercato e possibili trend

Di Alfonso Maglio, Head of Research Department di Marzotto Investment House
Il petrolio è un mercato estremamente complicato. Si tratta infatti di un mercato globale contraddistinto da molte tipologie di petroli con diverse caratteristiche e influenzato da innumerevoli variabili, sia di carattere economico che geopolitico. In più, dal momento in cui in media solo il 2% di enormi open interest sulle scadenze futures (WTI e Brent sono i principali petroli quotati) si trasformano effettivamente in consegna fisica della materia prima, si tratta di un mercato contraddistinto da una enorme speculazione, forse in proporzione anche più dello stesso S&P500.
Un’altra considerazione da fare è che la domanda è sostanzialmente anelastica, in quanto gran parte della materia prima è utilizzata per trasporto e riscaldamento. Anche a fronte di un rallentamento economico, questo tipo di consumo tenderebbe a variare poco. La parte industriale è chiaramente più ciclica, ma nel complesso è difficile che la variazione tra il picco e il bottom di un ciclo economico possa superare il 3-4%.
Lo shale (sia oil che gas) cambia ovviamente lo scenario, perché aggiunge alcuni milioni di barili al giorno e ha reso gli stati Uniti completamente indipendenti, tanto che in alcune fasi del 2016 sono stati addirittura esportatori netti. Il costo di estrazione dello shale oil è stimato (fonte Forbes) tra $30 (alcuni singoli campi hanno addirittura costi inferiori) e $50. Nondimeno, dati anche una serie di oneri aggiuntivi tra cui quelli finanziari, è difficile che con il prezzo del petrolio sotto i $50 non ci sia un importante rallentamento della produzione di petrolio non convenzionale, come viene definito l’universo dello shale oil.
In relazione ai costi di produzione dei paesi produttori, il calcolo resta complesso, perché si passa dai costi di estrazione (generalmente bassi nell’on-shore, meno nell’off-shore), ai costi totali (che possono includere anche costi di esplorazione e finanziari) fino ai costi fiscali dei paesi produttori. I costi fiscali sono importanti perché consentono di individuare il prezzo che, data la produzione stimata, permette la copertura della spesa pubblica del paese produttore. In particolare, l’Arabia Saudita che negli ultimi anni per evitare disordini interni ha progressivamente aumentato la spesa pubblica, avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio tra 85 e 87 dollari, secondo stime dell’IMF di maggio 2018. Più basso sarà il prezzo del greggio, più elevato sarà il suo deficit, per cui è probabile che il ministro del petrolio saudita cerchi di intervenire frenare un’eventuale discesa del petrolio verso il basso.
Molti analisti cercano di analizzare l’impatto delle energie rinnovabili sul consumo totale di petrolio. È nostra opinione che quando le batterie avranno incrementato la capacità di stoccaggio dell’elettricità e il loro costo sarà più abbordabile, il petrolio potrebbe essere penalizzato. Si tratta nondimeno di un processo relativamente lungo. Basti pensare che poco dopo il 2010 la domanda era di circa 90 milioni di barili al giorno su una produzione di circa 94 e si stimava che a seguito dei grandi investimenti nelle energie rinnovabili, difficilmente la domanda globale si sarebbe mossa verso l’alto. In effetti da allora la crescita media annua della domanda salita a circa 100 milioni di barili è stata forse inferiore all’1% annuo, ma a fronte di un drastico calo degli investimenti dopo il crollo del 2015.
Guardando ai prossimi anni, nonostante lo shale oil e le energie rinnovabili, la domanda dovrebbe rimanere sopra i 100 milioni di barili giornalieri ancora per alcuni anni, a fronte di investimenti delle majors petrolifere sempre più contenuti.


Benché le commodities siano una classe di investimento separata, è importante che anche gli investitori non direttamente interessati al petrolio debbano conoscerne le dinamiche e le prospettive, data l’influenza diretta e indiretta che ha su molte classi di investimento.
Quali dinamiche hanno causato il calo dei prezzi delle ultime settimane?
Il punto di partenza per comprendere l’attuale movimento che in poco più di due mesi ha portato il WTI da un picco quasi a $77 il 3 ottobre scorso al di sotto dei $50 è sicuramente il bear market del 2014-2015. Allora in poco più di 12 mesi da un picco a $108 il petrolio era crollato ad un minimo di $29,2, semplicemente perché era passato molto chiaramente il messaggio che ogni paese produttore avrebbe cercato di massimizzare produzione e offerta. Lo shale nordamericano stava andando a pieno regime e L’Arabia Saudita aveva paura di perdere quota di mercato. Da qui dichiarazioni a favore della quota di mercato e non del prezzo.
Il risultato di questo folle tentativo di puntare soprattutto sulla quota di mercato, sicuramente esasperato anche da un eccesso di speculazione, ha portato il petrolio su livelli assolutamente insostenibili per i produttori. Da qui l’accordo Opec e Non Opec del 2016 per un taglio alla produzione che infatti ha riportato nel 2018 il WTI (il Brent prezza circa $10 in più) sopra $75.
Come mai nel 2018 il prezzo del WTI è risalito fino a $75 (con il Brent oltre $86)? Due a nostro avviso le ragioni. Una di breve, l’altra di medio periodo.
La prima dipende dalle nuove sanzioni annunciate degli Stati Uniti all’Iran, quarto produttore mondiale con poco meno di 4 milioni di barili al giorno. Il mercato era infatti sicuro che l’esclusione dal mercato della maggiore parte della produzione iraniana dopo che il Venezuela continua a produrre a capacità ridotta, avrebbe creato un problema di scorte già nel 2019.
Il secondo punto è che negli ultimi anni gli investimenti off-shore delle grandi major petrolifere non sono mai veramente ripartiti, come è possibile intuire dalle press releases delle varie Saipem, Technip, Subsea 7 etc. Nel momento in cui i giacimenti attualmente operativi dovessero essere meno produttivi, rischia di esserci una fase di discontinuità nell’offerta.
Invece, al contrario, si sono verificate due condizioni negative per il prezzo del petrolio.
Il presidente statunitense Trump ha detto chiaramente che a lui fa comodo un petrolio su livelli bassi, dichiarazione resa più credibile dopo il caso Kashoggi che ha indebolito il potere decisionale della monarchia saudita.
Il punto più importante tuttavia è stata l’esclusione temporanea di otto paesi dall’obbligo di rispettare le sanzioni all’Iran.
Questi due elementi che sono andati a danneggiare un contesto altrimenti positivo per il prezzo del petrolio, si sono inseriti in una fase di mercato in cui le scorte e il numero dei pozzi attivi (RIGS) erano sui massimi di periodo, proprio in previsione di un calo delle scorte nel 2019.
Il rimbalzo del greggio dal 2016 è stato spinto anche dal calo del numero dei pozzi attivi negli Stati Uniti. Al contrario, da allora il numero dei Rigs è progressivamente risalito lasciando ipotizzare un contesto di eccesso di scorte nel caso le sanzioni all’Iran dovessero essere sospese o ridotte.
A riportare un marginale ottimismo sul petrolio, il taglio di complessivi 1,2 milioni di barili giornalieri tra Opec e non-Opec annunciato lo scorso 7 dicembre. Il taglio sarà effettivo da gennaio, anche se l’Arabia Saudita ha confermato stime di produzione in calo già nel mese di dicembre.
L’unica ombra su un meeting che nel complesso si è avvicinato alle stime massime (1,4 milioni) ed ha superato quelle medie (1 milione), è l’impegno a ridiscutere i tagli nell’ aprile 2019, quando gli Stati Uniti decideranno se confermare o meno le esenzioni per alcuni paesi delle sanzioni all’Iran.
È perciò probabile che se le esenzioni dovessero essere tolte e le sanzioni pienamente confermate, l’Opec potrebbe i tagli alla produzione appena decisi e annunciati. Ma a quel punto il mercato sarebbe tornato in equilibrio.
Conclusioni, come possiamo notare da sbalzi di prezzi enormi per fondamentali che muovono l’offerta di petrolio solo di pochissimi punti percentuali, la componente speculativa è molto rilevante.
Un prezzo al di sopra di $75 in un contesto di scorte in aumento era giustificato soprattutto dalle sanzioni all’Iran. Persa efficacia questa arma, il mercato si è focalizzato soprattutto sugli alti livelli di produzione portando il WTI al di sotto dell’importante livello tecnico posto a $50.
La successiva decisione dell’Opec e della Russia di tagliare la produzione, darà il tempo necessario al mercato per rimuovere l’eccesso di offerta, riportando il mercato petrolifero ad un maggiore equilibrio tra domanda e offerta.
In questo nuovo equilibrio è perciò lecito ipotizzare che il numero di RIGS attivi da ora in diminuisca e che il prezzo possa cercare di allontanarsi da $50 per stabilizzarsi nei prossimi mesi almeno in area $55-60.
Un eventuale rimbalzo del petrolio sarebbe ovviamente positivo per l’S&P500.
Per cercare di anticipare il prezzo del petrolio nei prossimi mesi, riteniamo sia necessario monitorare oltre al numero dei Rigs anche i dati macroeconomici, i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita e la capacità di questi ultimi a mantenere il più a lungo possibile i tagli alla produzione appesa annunciati.
 

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!