Politica fiscale, meglio rock o blues?

A cura di Luca Tobagi, Cfa, Investment Strategist di Invesco

Quando ero molto più giovane, circa trenta anni fa, ho pensato che la composizione musicale potesse essere un passatempo divertente. Lo è stato, ma è stato anche impegnativo. Amalgamare in modo armonioso suoni dalle caratteristiche diverse non è intuitivo. Richiede competenza ed esercizio.

Revolver, il settimo album dei Beatles e prima pietra miliare del loro percorso di sperimentazione musicale è stato un ascolto molto influente per me all’epoca. L’ultima canzone, Tomorrow Never Knows, è quella che apre al futuro, ma è il brano di apertura, Taxman, che mi interessa oggi. Si tratta di un attacco politico diretto al sistema fiscale britannico, molto insolito per gli educati Fab Four. Possiamo considerare Taxman una testimonianza storica che nel Regno Unito, a metà degli anni ’60, alcuni contribuenti erano soggetti ad un’aliquota fiscale del 95%. Nel caso i primi due versi della canzone non fossero abbastanza chiari, i successivi esplicitano il concetto:

Scorriamo avanti veloce di cinquant’anni e abbiamo ancora contribuenti che si lamentano delle alte tasse pagate. Alcuni si spostano per il mondo, alla ricerca dell’“ottimizzazione fiscale”. Dopo i Beatles, alcune delle più grandi rock band, come Rolling Stones e U2, sono diventati aziende residenti in Paesi dalla fiscalità più favorevole.

Gli effetti dell’austerità fiscale

I governi sono sempre assetati di risorse fiscali. Storicamente tendono a spendere molto. Mi viene rivolta spesso la domanda di come sia possibile che l’ex Presidente della Bce Mario Draghi abbia dovuto invitarli a spendere di più, non di meno. Vale quindi la pena di osservare quanto un campione di Paesi dell’area Euro e gli Usa abbia speso nei decenni passati (grafico 1). La metrica che usiamo è il saldo fiscale primario in percentuale del Pil, che è la differenza fra quanto un governo incassa con le tasse e quanto spende in tutte le aree di spesa corrente esclusi gli interessi sul debito. Se il numero è positivo, il governo ha un surplus (o avanzo), altrimenti ha un deficit (o disavanzo).

La prima informazione del grafico 1 è che vari governi, per lunghi periodi dal 1991, hanno fatto registrare un deficit fiscale primario, cioè hanno sistematicamente speso più di quanto incassato con le tasse. Ciò si può considerare una politica fiscale espansiva. Il saldo primario non racconta l’intera storia, ma notiamo che gli Usa hanno strutturalmente avuto un deficit primario, mentre Germania e Italia sono stati risparmiatori strutturali dal 1991 (si veda anche il grafico 2). Il caso dell’Italia sarà brevemente approfondito in chiusura.

In secondo luogo, notiamo come i saldi primari si siano mossi drasticamente verso l’alto dal 2009-2010: è l’effetto della cosiddetta austerità fiscale.

Se ci spostiamo al saldo fiscale generale, che include anche entrate e uscite finanziarie, inclusi gli interessi sul debito pubblico, i numeri cambiano. Abbiamo dati dal 1995 anziché dal 1991. Il pagamento di interessi sul debito pubblico è oneroso, perciò il saldo fiscale generale è inferiore a quello primario (grafico 3).

In conclusione, è vero che si è avuto un periodo di austerità dal 2009, il cui tempismo è stato tutt’altro che perfetto. Ed è vero che vari governi abbiano spazio per un accomodamento fiscale oggi. Alcuni Paesi, Germania in primis, avrebbero potuto spendere di più e possono ancora attuare una politica fiscale espansiva nel futuro, ma altri hanno continuato a spendere più delle risorse raccolte con la tassazione, sebbene tale differenza, che tecnicamente possiamo considerare un’espansione fiscale, si sia progressivamente ridotta negli ultimi dieci anni.

La repressione finanziaria, specialmente quella della Bce, ha spinto al ribasso i rendimenti dei titoli di Stato a un livello tale da rendere molto economico il rifinanziamento del debito pubblico. L’aritmetica della sostenibilità del debito pubblico ci dice che quanto maggiore è l’ammontare che scade e viene rinnovato a tassi molto più bassi di prima, quanto più sostenibile il debito pubblico diventa, anche se il tasso di crescita dell’economia rallenta. Ciò, a sua volta, concede una più ampia flessibilità fiscale a tutti i Paesi, anche i più indebitati. Ritengo che questo sia un aspetto della politica monetaria ultra-accomodante degli ultimi anni a cui Draghi ha fatto implicito riferimento nella sua conferenza stampa di settembre.

Tutto ciò mi suggerisce che probabilmente, per ottenere benefici significativi da una politica fiscale espansiva, non conti solo la quantità, ma anche la qualità, il mix degli interventi. Se questo fosse il caso, una buona politica fiscale richiederebbe competenze in continua evoluzione e costanza nell’applicazione e nell’esercizio. Per la colpevole mancanza di quest’ultima, ho compiuto enormi passi indietro verso l’analfabetismo musicale di ritorno negli ultimi venticinque anni. La vera domanda è se, dopo anni di politiche orientate al breve termine, i decisori politici siano in grado di suonare un energico rock ‘n’ roll fiscale, non un lamentoso blues delle tasse.

Il caso italiano

L’Italia rappresenta un caso di studio interessante, perché il gravoso fardello del debito pubblico che oggi ne limita la flessibilità fiscale è rimasto molto alto nonostante il Paese abbia trascorso 26 degli ultimi 27 anni con un avanzo fiscale primario.

Il problema è sorto fra il 1948 – nel grafico vediamo gli anni dal 1960 – e il 1991, quando il governo italiano ha mantenuto un persistente deficit, che si è progressivamente allargato fino a raggiungere il 7,73% del Pil nel 1975, come si nota nel grafico 4, ed è rimasto in territorio pesantemente negativo fino al 1981. Poi il Paese ha avviato uno sforzo per ridurlo, tramite una politica fiscale responsabile, ma l’eredità dei primi decenni, con il moltiplicatore del carico degli interessi nel tempo, ha fatto gonfiare il debito in termini nominali.

Il risultato netto è che oggi, nonostante un avanzo primario quasi permanente e l’ambiente con bassi tassi di interesse, l’Italia gode di margini di manovra modesti per quanto riguarda la politica fiscale. Al di là di alcune folate di retorica antieuropeista e della possibilità di migliorare il patto di stabilità e crescita e l’assetto istituzionale dell’Europa, bisogna ammettere che il danno alla posizione di finanza pubblica italiana sia stato autoinflitto.

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