Private equity fondamentale per sostenere le imprese nello sviluppo sostenibile

A cura di Johnny El Hachem, Ceo di Edmond de Rothschild Private Equity

Nel bel mezzo dell’attuale crisi, il private equity si è rivelato uno strumento indispensabile per sostenere le imprese nel loro percorso di sviluppo sostenibile. Più che mai, le strategie di investimento per la rigenerazione delle aree urbane degradate e delle infrastrutture socio-ambientali, così come la regionalizzazione delle catene del valore, sono temi che devono essere al centro dell’attenzione.

Il private equity si trova nelle condizioni migliori per affermarsi come un percorso verso il mondo di domani, un cammino che speriamo possa fornire una crescita sostenibile, equa e resiliente.
Indipendentemente dallo scenario economico, il vantaggio principale di un’asset class come il private equity è da rintracciarsi nel suo approccio a lungo termine, che la tuteli dalle decisioni affrettate e dalla volatilità proprie degli asset quotati. Il settore beneficia anche della fiducia degli investitori o dei Limited Partners (LP) che cercano di diversificare i propri asset in un contesto di tassi di interesse bassi o addirittura negativi. Tanto che i gestori di fondi o i General Partner (GP) hanno raggiunto una quota record di quasi 2mila miliardi di dollari di “dry powder” prima della crisi. Proprio in quanto tali dispongono di ampie riserve non solo a sostegno dei portafogli, ma anche per cogliere le opportunità di acquisizione e ricapitalizzazione nel caso di una flessione dei prezzi o di peggioramento delle condizioni. Non è neanche il momento di ridurre le posizioni; in una recente indagine di Private Equity International solo il 5% degli intervistati ha dichiarato di voler ridurre i propri portafogli sul mercato secondario.

Un rapporto stretto con le aziende

Il settore del private equity è oggi molto più maturo di quanto non fosse nel biennio 2008-2009, con team di investimento specializzati ed esperti che hanno affinato le proprie competenze tecniche, finanziarie e manageriali. Questi professionisti si impegnano a mantenere stretti rapporti con le società in cui investono, partecipando ai consigli di amministrazione, contribuendo alle decisioni gestionali e strategiche e acquisendo forti diritti attraverso patti parasociali. Ne deriva una governance migliore, una solida capacità operativa e la condivisione delle best practice tra le varie società in portafoglio.

Tuttavia, se il private equity aspira a ricoprire un ruolo di primo piano nella fase di “ricostruzione” post-lockdown, deve evitare strategie a breve termine guidate dalla speculazione. Dovrebbe invece concentrarsi su strategie di crescita realizzabili e su aziende che abbiano in sé il potenziale per trasformarsi, per creare valore senza ricorrere eccessivamente alla leva finanziaria e per generare flussi di cassa ricorrenti.

Andare oltre l’Esg per mettere al centro della gestione del rischio il concetto di impact investing

Anche se la redditività rimarrà fondamentale, i temi d’investimento più interessanti per il futuro saranno quelli che tengono conto di tutte le “esternalità” e che riflettono una profonda comprensione dell’impatto che l’uomo esercita sul mondo che lo circonda. I criteri ambientali, sociali e di governance (Esg) devono diventare un vero e proprio strumento di gestione del rischio per garantire la stabilità del portafoglio e non rimanere semplicemente uno strumento di compliance o di marketing. Nei prossimi mesi e anni, il private equity avrà quindi un ruolo fondamentale per soddisfare le crescenti esigenze non solo in termini di telecomunicazioni e di infrastrutture sociali, in particolare il segmento destinato ai cittadini anziani, ma anche in termini di infrastrutture ambientali. Ciò vale per la gestione delle acque e dei rifiuti, la decontaminazione del suolo per ridurre la pressione sui terreni coltivabili, o per trovare soluzioni efficaci all’espansione urbana, promuovendo una mobilità soft e la diversità urbana. Queste risorse forniranno inoltre ai governi un mezzo per facilitare la ripresa economica attraverso un maggiore ricorso a partenariati tra pubblico e privato.

I limiti del modello di globalizzazione

Inoltre, se da un lato la crisi ha confermato l’importanza dell’innovazione tecnologica nei settori legati alla sanità, all’istruzione e alla digitalizzazione, dall’altro ha evidenziato gli eccessi della globalizzazione e la necessità di una regionalizzazione. Le filiere devono essere ridefinite in modo da ottenere una maggiore autonomia regionale e un aumento degli scambi interregionali in un mondo tripolare (Nord America-Asia-Europa). A questo proposito, l’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, ecc.) e la regione Mena (Medio Oriente e Nord Africa), in particolare il Marocco, avranno innegabilmente un ruolo chiave come alternativa alle regioni più lontane, soprattutto l’Asia. La regionalizzazione delle catene di valore e il ricolloccamento di alcuni settori con significativo valore aggiunto (in France e nell’Europa occidentale con l’obiettivo di ribilanciare le aree di produzione, deve avere la precedenza rispetto al modello globalizzato che ha raggiunto il proprio limite. Il nostro obiettivo è quello di contribuire a queste trasformazioni dedicando l’energia e il tempo necessari per garantirne il successo.

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