Riflessioni sul significato di “transitorio” secondo la Fed

Settimana scorsa il presidente della Federal Reserve statunitense, Jerome Powell, ha aggiunto una nuova parola al lessico dei massimi esponenti della banca centrale: “transitorio”. Se si cerca la parola nel dizionario, la definizione recita “agg. di breve durata, temporaneo, non permanente”. “Siamo quindi restati leggermente sorpresi quando, durante l’ultima conferenza stampa, Powell ha usato il termine per descrivere la debolezza dell’inflazione“. Fa notare Joseph V. Amato, President e CIO-Equities di Neuberger Berman, che di seguito spiega i propri dubbi in merito.

Non è forse vero che negli Stati Uniti la spesa personale al consumo (PCE, Personal Consumption Expenditure) fatica da un decennio a raggiungere l’obiettivo del 2% annuale fissato dalla Fed? E i toni positivi e un po’ sopra le righe usati da Powell per parlare dell’economia globale non dovrebbero sollevare interrogativi simili?

Dibattito accademico

“Non intendo sminuire i timori suscitati da un’inflazione eccessivamente bassa”, ha dichiarato Powell, “ma abbiamo motivo di ritenere che simili cifre vengano particolarmente influenzate da alcuni fattori transitori”.

L’affermazione ha scatenato un dibattito sull’effettiva capacità dei “fattori transitori” menzionati (biglietti aerei low cost, abbigliamento a buon mercato, riduzione delle commissioni di gestione dei portafogli dovuta alla flessione dei mercati finanziari dell’anno scorso, rettifiche alla metodologia di creazione degli indici) di spostare l’ago della bilancia in questa o quella direzione.

Onestamente ci è sembrata una discussione puramente accademica, davanti al trend della spesa personale al consumo, al calo decennale degli indici inflazionistici nei Paesi emergenti e in quelli sviluppati e al declino trentennale delle U.S. Consumer Inflation Expectations, elaborate dall’Università del Michigan. Se questi sono fattori transitori, non sembrano coincidere con la definizione del termine fornita dal dizionario.

Da tempo sosteniamo che gli investitori dovrebbero aspettarsi un aumento dell’inflazione con la progressiva maturazione del ciclo. Ma abbiamo anche affermato senza mezzi termini che, a nostro avviso, si tratterebbe molto probabilmente di un aumento modesto, riconoscendo la natura tutt’altro che transitoria dei fattori che palesemente hanno mantenuto bassa l’inflazione, vale a dire le dinamiche della globalizzazione, l’automazione e la “sharing economy”, tanto per citarne alcune.

Consolidamento

Se da un lato è vero che parlando di inflazione Powell ha suscitato perplessità nei mercati, dall’altro non pensiamo che abbia peccato di eccessivo ottimismo nel valutare positivamente la crescita in Cina, Europa e Stati Uniti.

Per molti mesi, il miglioramento dei dati fuori degli Stati Uniti è stato una colonna portante della nostra view e non ce ne siamo discostati nonostante le turbolenze del quarto trimestre dell’anno scorso. Le ultime cifre diffuse continuano a sostenere quell’opinione.

L’indice PMI cinese della settimana scorsa rischiava di registrare un ribasso, dopo l’inaspettata impennata di marzo e invece si è consolidato in territorio positivo.

E nell’Eurozona gli indici PMI, pur collocandosi ancora nella fascia critica, si stanno muovendo in direzione giusta. Tutta l’attenzione recentemente rivolta alla debolezza del settore manifatturiero, inoltre, manca di cogliere la forza sottostante dei trend del lavoro e dei consumi, che sono la fonte dell’inaspettato rialzo del PIL della regione rilevato la settimana scorsa (+1,5% annualizzato).

Reazioni

Negli Stati Uniti, i negoziati commerciali con la Cina sembrano compiere progressi, il quadro occupazionale si presenta ancora molto robusto e i consumatori sembrano fiduciosi. Anche i dati sull’occupazione non agricola, diffusi venerdì, sono stati estremamente positivi, sebbene la crescita dei salari orari resti moderata (3,2%). Inoltre, la pubblicazione degli utili del primo trimestre da parte di metà circa delle società ha evidenziato che l’80% dei nomi dell’S&P 500 ha superato le stime degli analisti (a fronte di una media decennale del 68%). Gli ultimi dati mostrano un PIL in crescita al 3,2%.

Una simile cifra da scoop giornalistico deve molto alla ricostituzione delle scorte e all’incremento delle esportazioni nette. La domanda interna è stata meno sorprendente e gli indici pubblicati la settimana scorsa dall’Institute for Supply Management (ISM) sono risultati inferiori alle aspettative. Nondimeno, una parte dello scenario di ripresa globale da noi tratteggiato dipende proprio da questa stabilizzazione e dal ritorno di una crescita allineata al trend negli Stati Uniti, che consente alla Fed di mantenere i tassi stabili, guidare un atterraggio morbido e moderare, nel resto del mondo, una parte delle pressioni dovute a un dollaro forte.

Una svolta restrittiva da parte della Fed potrebbe mettere tutto questo a repentaglio. Ecco spiegata la fuga dagli asset rischiosi della settimana scorsa, in reazione alle esternazioni “transitorie” di Powell. Sospettiamo che i mercati abbiano attribuito a quelle parole un significato eccessivo. Tutto sommato, il comunicato ufficiale della Fed ha riconosciuto che i dati sull’inflazione a 12 mesi non sono più “prossimi al 2%” ma “sono scesi, attestandosi sotto al 2%”. Nel valutare positivamente le prospettive globali, Powell stesso ha sottolineato l’importanza di un quadro accomodante. Difficile prevedere un taglio dei tassi, in futuro. Molto improbabile prevederne l’aumento.

Quindi, se le dinamiche disinflazionistiche in atto non sono affatto transitorie, potrebbero invece rivelarsi tali le fluttuazioni dei mercati azionari della settimana scorsa.

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