Riflessioni sulla volatilità del mercato

di Mark Burgess, Chief Investment Officer EMEA e Responsabile azionario globale di Columbia Threadneedle Investments.

Dire che si sia trattato di un trimestre difficile per gli investitori sarebbe riduttivo, giacché la loro fiducia e i mercati hanno evidenziato la debolezza più significativa da parecchi anni a questa parte. Siamo tutti informati sulle sfide che attendono la Cina e sulle relative implicazioni per l’economia globale, ma la questione va ben oltre le sole modalità con cui il paese e il mondo sviluppato affrontano l’inevitabile rallentamento del gigante asiatico. Al momento della redazione del presente documento, l’indice MSCI World (total return) ha perso l’8,3% nel terzo trimestre in termini di dollari USA sebbene, alla luce delle repentine flessioni in alcuni settori, la situazione sembri talvolta peggiore.

A seconda del punto di partenza che si prende in considerazione, siamo attualmente a sette o otto anni dall’inizio della crisi finanziaria globale (CFG). Per quel che vale, il mio punto di riferimento è il profit warning di HSBC del febbraio 2007, quando la banca tagliò le proprie previsioni sugli utili per via dell’incremento dei prestiti in sofferenza nella divisione prestiti subprime USA allora recentemente acquisita. Sebbene la crisi non si sia rivelata in tutta la sua gravità fino al 2008, la storia suggerisce che siamo più vicini all’inizio della prossima contrazione che alla fine dell’ultima. Il problema è che anche con una politica monetaria ultra espansiva con tassi d’interesse allo 0% e abbondante liquidità derivante (essenzialmente) dal quantitative easing (QE) globale, la crescita economica del mondo sviluppato è al più modesta. Secondo le nostre previsioni, l’espansione globale dovrebbe essere pari ad appena il 3,5% nel 2016 e sarà decisamente inferiore a tale quota nella maggior parte dei paesi avanzati. Negli Stati Uniti, che rappresentano il mercato sviluppato più solido, le stime sulla crescita continuano a subire pressioni, limitando la capacità delle autorità di avviare la normalizzazione dei tassi d’interesse. In Europa l’espansione potrebbe registrare un rialzo attestandosi tuttavia all’1,5% massimo il prossimo anno, nonostante il massiccio stimolo monetario, il forte indebolimento dell’euro e la marcata flessione delle quotazioni energetiche. Persino in Giappone, dove il QE è attualmente pari a oltre il 14% del PIL su base annua, è molto difficile riscontrare espansione e inflazione, con la prima destinata a non superare l’1,5% il prossimo anno.

È questa la ragione per cui la Cina riveste tanta rilevanza; il paese è di fatto stato un importante driver della crescita marginale. Con l’inevitabile decelerazione, o persino la potenziale sospensione, della spesa per investimenti sostenuta dal credito, gli effetti di tale situazione sull’economia globale e sul sistema finanziario sono significativi. Per quanto concerne i prezzi delle materie prime, abbiamo già assistito al crollo delle quotazioni petrolifere e dei metalli industriali più in generale, poiché i consumi sono stati ridotti. A fronte delle nuove fonti di greggio e della mancata volontà dell’OPEC di tagliare la produzione, il prezzo dell’oro nero è sceso a livelli precedentemente difficili da immaginare. Sebbene tale flessione rappresenti di fatto uno sgravio quanto mai necessario per i consumatori occidentali, per il momento i loro guadagni sembrano essere destinati al risparmio piuttosto che alla spesa. Per i produttori di petrolio gli effetti sono potenzialmente catastrofici, giacché esercitano pressioni enormi sui bilanci e attirano l’attenzione su costosi (e attualmente insostenibili) programmi di previdenza sociale. Tale situazione ha a sua volta generato pressioni al ribasso su molte valute emergenti e diverse economie si trovano costrette ad attuare politiche di tassi d’interesse procicliche per proteggere le rispettive divise dal collasso. Tutto ciò è negativo per la crescita globale e crea apprensioni nel sistema finanziario. È difficile prevedere quale sarà il corso degli eventi, ma quello che sappiamo invece è che le stime sulla crescita economica globale continueranno a essere ridimensionate.

È arduo spiegare anche il perché della significativa debolezza che, nonostante i numerosi stimoli monetari, caratterizza l’espansione dei mercati sviluppati. Probabilmente la causa va ricercata nella forza invisibile del deleveraging, considerato che nel primo decennio del nuovo millennio siamo stati alle prese con l’accumulo dell’eccesso di debito. O forse la motivazione risiede nelle dinamiche demografiche sfavorevoli o nella mancanza di miglioramenti al livello della produttività. Indipendentemente da quale sia la ragione, l’indebolimento della Cina rappresenta una cattiva notizia per via della considerevole importanza che la crescita del paese riveste al margine. A destare preoccupazione deve essere il fatto che, se l’espansione globale dovesse subire pressioni reali, non vi sarebbe più molto che le autorità potrebbero fare per stimolare l’economia; i tassi d’interesse sono già nulli, il QE ha avuto un impatto contenuto e i disavanzi di bilancio limitano il margine di manovra finanziaria dei governi. La nostra tesi centrale è che la crescita del PIL cinese rallenterà probabilmente al 5% annuo. Ciò significa che non avremmo bisogno di aspettare per venire a conoscenza delle prossime mosse della Cina sul fronte delle politiche, poiché un ulteriore imponente stimolo non sarebbe verosimilmente necessario. Qualsiasi sia il risultato, sembra chiaro che i tassi rimarranno bassi più a lungo e che il loro punto d’arrivo una volta che avranno ripreso ad aumentare sarà nettamente inferiore rispetto ai cicli passati.

Prima che tale scenario causi un eccessivo avvilimento, sappiate che lo stesso è fonte di talune notizie positive. Dopo anni caratterizzati dalla perdita di quote di mercato a favore di fornitori passivi, i gestori attivi sono passati al contrattacco. Quest’anno in Europa e nel Regno Unito il gestore attivo medio ha sovraperformato l’indice del 3-5% circa e i nostri fondi hanno per la maggior parte conseguito risultati ancora migliori. In linea con il nostro stile d’investimento e approccio improntato alla prudenza, abbiamo nettamente sottopesato i titoli ad alta capitalizzazione del settore energetico e delle risorse e abbiamo assistito da spettatori, declassamento dopo declassamento, al tracollo delle quotazioni azionarie di molte società una volta solide. La situazione potrebbe peggiorare per coloro che si trovano in condizioni finanziarie sfavorevoli e ci si dovrebbe inoltre attendere ulteriori fallimenti. Ciò ha già trovato riflesso negli spread creditizi, dove i differenziali dell’alto rendimento sono aumentati a quasi 600 pb sui Gilt da un minimo di 300 pb nel 2014. A nostro parere, l’accurata selezione dei titoli, la gestione del rischio e la costruzione del portafoglio saranno fondamentali alla luce del persistente deterioramento dello scenario.

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