Sei domande in attesa di risposta

A cura del team di asset allocation di MoneyFarm Sim
Sta finendo una delle estati più movimentate degli ultimi anni sui mercati, con la crisi greca, la volatilità dei prezzi delle materie prime e il rallentamento cinese. Con l’arrivo dell’autunno, ecco alcune delle domande che si stanno ponendo gli investitori in queste settimane e relative considerazioni al riguardo, in attesa che gli eventi permettano di trovare una risposta.
Riuscirà la Fed ad alzare i tassi in autunno?
La domanda dà per scontato quello che si legge nei documenti ufficiali della Fed, ossia che in media i membri del comitato esecutivo ritengono che i tassi dovrebbero essere più alti, per ragioni legate all’andamento del mercato del lavoro e dell’economia in generale. La Fed da anni cerca di gestire al meglio la fine di un’epoca di politiche monetarie super espansive, prima interrompendo il quantitative easing, poi preparando la strada a un rialzo dei tassi. Ma alcune incertezze sull’economia globale e la situazione dei mercati potrebbero costringere la Fed a rallentare questo processo, con il rischio che alla prossima recessione non possa abbassare i tassi, già a zero, ma debba ancora ricorrere a quantitative easing, in un gioco al rilancio tra mercati e banca centrale che va avanti in forme diverse ormai dalla fine degli anni ‘80. Oltre a quello che farà la Banca Centrale americana, i gestori internazionali saranno molto attenti a quello che dirà: un errore di comunicazione o un cambio di rotta non adeguatamente spiegato potrebbero avere effetti rilevanti sui mercati.
Quanto è grave il rallentamento cinese?
La Cina sta rallentando, lo dicono i dati macroeconomici e i mercati. Per un’economia così grande che cresceva dell’8-10% annuo, una crescita al +5-6% rappresenta un problema, perché si traduce in investimenti non profittevoli come previsto, crisi del credito e altre conseguenze. I dati statistici provenienti dalla Cina sono anche oggetto di sospetto da parte delle istituzioni statistiche internazionali. È difficile che la fine di un boom durato oltre un decennio e caratterizzato da una forte componente di investimenti, pubblici e privati, possa tradursi in una crisi “moderata”: per via dell’alta dipendenza dall’export e dagli investimenti, l’economia cinese rischia di essere più volatile di un’economia sviluppata come quella americana, nel bene e nel male.
Perché la “ripresa” in Eurozona e Giappone non decolla?
Il Giappone e l’Eurozona sono le economie sviluppate che per ultime hanno imboccato la strada del quantitative easing. Qualche risultato si è avuto, anche importante: minor volatilità sui titoli di stato e sostenibilità dei debiti pubblici in Eurozona. In Giappone si sono avuti alcuni trimestri di crescita e inflazione positiva. Ma si tratta di numeri troppo modesti per parlare di svolta. C’è chi punta il dito sul ritardo nell’implementare il QE rispetto agli USA. Può darsi, ma in quanto a dimensioni ed estensione la Bank of Japan ha fatto molto, fino a comprare direttamente azioni. A difesa dei banchieri centrali, si può dire che essi hanno sempre sostenuto che il QE doveva essere uno strumento di transizione in attesa di riforme strutturali e istituzionali in arrivo dalla politica. Gli ultimi dati di occupazione, fiducia delle imprese, consumi privati lasciano comunque sperare bene per i mesi a venire, almeno in Eurozona.
Perché il mercato dei corporates è così stabile?
Guardando l’andamento degli spreads pagati dalle obbligazioni societarie globali ed escludendo alcuni segmenti del mercato high yield americano, si osserva un andamento poco movimentato, nulla di paragonabile al 2008 o al 2012. Considerando il debito di governi, famiglie e imprese a livello globale, forse le imprese non finanziarie sono il segmento meno indebitato, e questo in parte ne giustifica la bassa volatilità. Ma negli ultimi dieci anni una fase di ritracciamento sui mercati globali non è mai avvenuta senza un corrispondente rialzo di spreads e tassi di default. L’idea che la fase di volatilità sui mercati globali sia finita potrebbe quindi essere prematura.
I mercati sono cari o a buon prezzo?
Ogni mercato ha le sue condizioni e caratteristiche specifiche, ma in generale si possono fare alcune considerazioni. I titoli di stato dei paesi sviluppati sono probabilmente cari: i tassi reali sono nulli o quasi in tutto il mondo, a meno che non ci si aspetti una deflazione peggiore di quella del Giappone negli ultimi decenni. I mercati azionari dei paesi sviluppati, dopo le vendite di agosto, non sono cari, ma non trattano neppure a prezzi stracciati. Siamo in quella situazione intermedia in cui un “value investor” non vede ancora valore e un momentum/growth investor non vede più un trend. Sui mercati emergenti, valutari o azionari, i cali di questi mesi hanno portato a valutazioni basse, se si guardano medie storiche o in confronto con gli sviluppati. Per chi può accettare ulteriore volatilità o è in grado di fare selezione all’interno dell’enorme mondo degli emergenti, qualcosa di interessante di certo si può comprare.
Cosa sta succedendo sul mercato delle materie prime?
Il calo dei prezzi delle materie prime è strettamente legato alla vicenda dei paesi emergenti e della Cina. La velocità della correzione e i repentini forti rimbalzi creano ulteriore incertezza, se si considera che le materie prime sono l’ingrediente di qualunque processo industriale e del bilancio quotidiano delle famiglie. Prezzi in calo delle materie prime sono un indicatore di bassa domanda globale e contribuiscono al rischio di deflazione. Per chi pensa però che la soluzione di decenni di alto debito in tutto il mondo possa essere qualche forma di sorpresa inflazionistica, speranza per ora smentita dai fatti, forse è meglio essere a questi livelli esposti alle materie prime che ad altre asset classes.

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