Siamo pronti a un aumento dei tassi?

a cura di Chris Iggo, Cio Fixed Income di Axa Investment Managers

È un fatto assodato che gli asset più rischiosi danno buoni risultati nelle fasi di espansione economica, mentre gli investimenti con minor rischio garantiscono prestazioni migliori nelle fasi di ribasso. Il problema è che, al momento, non sappiamo bene a quale fase stiamo andando incontro.

Stando agli indicatori, nei prossimi due anni potrebbe verificarsi una seppur modesta espansione oppure una fase di contrazione. Allo stesso tempo, le valutazioni non sono particolarmente appetibili. La prospettiva di un aumento dei tassi Usa è ancora aperta e gli investitori devono chiedersi come si comporteranno gli asset rischiosi in un contesto di aumento dei tassi d’interesse.

Siamo pronti a un aumento dei tassi? Probabilmente no, considerati i vincoli patrimoniali. La Fed, però, dovrà aumentare i tassi per riservarsi un po’ di margine in modo da poterli abbassare nelle fasi discendenti del ciclo. L’entità e la velocità dei rialzi dipenderà di fatto dalla crescita e dall’inflazione. Come sempre, occorre tenere d’occhio i dati.

La vecchia maniera

L’indagine mensile sui responsabili degli acquisti USA condotta dall’Institute for Supply Management’s (ISM) è sempre la migliore fonte di informazioni sullo stato ciclico del settore manifatturiero americano. Per estensione, ci dice qualcosa anche sullo stato di salute generale dell’economia USA, sulla situazione mondiale e sul probabile sentiment del mercato finanziario. Per un lungo periodo, l’indice ISM è riuscito a cogliere la ciclicità dell’economia USA misurando i nuovi ordinativi, la produzione, l’occupazione e la determinazione dei prezzi. Si tratta di un indicatore importante ai fini dell’asset allocation tra le diverse classi di attivi e al loro interno.

Semplificando, una fase di aumento dei valori dell’indice ISM rappresenta una crescita economica che favorisce gli utili delle imprese e la spesa per i consumi, mentre un periodo di calo dei valori dell’indice rappresenta una fase di rallentamento economico, tendenzialmente accompagnata da un basso tasso d’inflazione e da bassi tassi d’interesse. Per il nostro approccio, che prevede la gestione di portafogli obbligazionari di ogni tipo, l’indice ISM costituisce uno strumento utilissimo per decidere se mantenere un maggiore orientamento verso i titoli di Stato (nei periodi di flessione dei valori dell’indice) o verso il segmento high yield (nei periodi di rialzo dei valori dell’indice e di espansione economica).

La difficoltà sta nell’identificare i punti di svolta per modificare l’esposizione al rischio, ed è questo il motivo per cui ci rivolgiamo agli economisti e dedichiamo così tante ore della nostra giornata a studiare i dati economici e i comunicati delle banche centrali.

Boom, boom, bang

All’epoca della crisi finanziaria, l’indice ISM crollò fino a raggiungere un livello di 33,1. La flessione era stata preceduta da un lungo periodo di stabile espansione economica, dopo la ripresa successiva allo scoppio della bolla delle dot.com di inizio millennio. L’indice raggiunse il picco di 61,4 a maggio 2004 e si attestò sopra il livelli di “break-even” (50) fino a novembre 2007. In quel periodo, l’effetto “alta marea” della crescita economica spinse al rialzo tutte le attività finanziarie. In generale gli asset rischiosi registrarono buoni risultati (in quel periodo, l’indice US high yield superò l’indice US Treasury del 9,4%).

In ogni caso, a fine 2007 la situazione si deteriorò in modo repentino tanto che, a dicembre 2008, l’indice ISM segnalava una profonda recessione. Il crollo della crescita ebbe pesanti ripercussioni sugli asset rischiosi, e il segmento high yield negli USA sottoperformò i Treasury del 48%. Grazie a una serie di interventi d’emergenza da parte delle autorità monetarie, nel periodo 2009-2011 si registrò una ripresa, che fece risalire l’indice ISM a 59,9 entro febbraio 2011. In quel lasso di tempo, il segmento high yield registrò uno strabiliante recupero, mentre i rendimenti sui mercati dei tassi restarono invariati. Da allora, i cicli sono diventati meno pronunciati.

Da novembre 2012, l’indice ISM è rimasto all’interno di un range di 48,8 – 58,1. Di conseguenza, le differenze di total return tra le diverse asset class si sono ridotte. Il segmento high yield ha superato i titoli investment grade e titoli di Stato, ma le differenze sono molto più esigue di quanto si registri in periodi di maggiore volatilità macroeconomica. Il principale motore dei rendimenti, di fatto, non è costituto dal ciclo, bensì dalla lotta alla deflazione, dalla diminuzione dei tassi d’interesse su scala globale e dall’estensione del quantitative easing. Questi interventi a livello monetario hanno avvantaggiato tutte le asset class obbligazionarie.

Tutte le ragioni sbagliate

A che punto siamo oggi? In aprile l’indice ISM si collocava a 50,8 – livello che suggerisce una situazione di stagnazione del settore manifatturiero US. Il mercato pare leggere questo dato come una metafora di tutta l’economia americana – la crescita è stagnante, per cui gli utili delle imprese sono scarsi e gli asset rischiosi non possono rendere. Eppure, al tempo stesso, la Fed ci suggerisce di essere pronta a un aumento dei tassi d’interesse a giugno. Se la Fed è convinta che, a partire da questo momento, l’economia possa rafforzarsi e che il prolungato periodo di scarsa attività produttiva riconducibile al rallentamento della Cina stia volgendo al termine, tale convinzione dovrebbe essere convalidata da un miglioramento dei dati dell’ISM nei prossimi mesi.

Una maggiore fiducia nell’economia dovrebbe consentire ai titoli con duration più breve e rischio di credito più elevato di ottenere buoni risultati anche in caso di rialzo dei tassi. In ogni caso, le prove vanno ricercate nei dati, ma ancora non le abbiamo viste. Questa settimana, ad esempio, quando la Fed ha accennato alla possibilità di un aumento dei tassi a giugno, sui mercati dei tassi e del credito è iniziata una fase di sell off.

In questo momento non è chiaro quale potrà essere lo scenario più probabile – l’indice ISM entrerà in una fase di flessione, segnalando la possibilità di una recessione da inizio 2017; oppure salirà gradualmente fino a un livello di circa 55, grazie al costante effetto di stimolo dei bassi prezzi dell’energia e dei bassi tassi d’interesse che, associati a un ambiente fiscale più favorevole, riporterà la crescita del PIL verso il trend? Secondo me lo scenario più probabile è il secondo, ma la mancanza di investimenti da parte delle imprese e la cautela delle famiglie continuano ad agire da freno. Per quanto concerne i dati relativi al PIL, nel primo trimestre gli investimenti fissi negli USA si sono ridotti, ed evidenziano una crescita in termini reali rispetto all’anno precedente limitata all’1,9%. Non c’è stato nessun boom degli investimenti.

Verso il plenilunio

Gli investitori obbligazionari farebbero bene a chiedersi perché il debito societario USA cresca così rapidamente se la spesa in immobilizzazioni è stata così bassa. A tutt’oggi, secondo le stime di mercato, vi sono stati quasi 600 miliardi di dollari di emissioni di obbligazioni societarie investment grade. Gli stessi dati sui flussi di fondi della Fed (a fine dicembre 2015) mostrano che il debito societario, escluso il comparto finanziario, ha raggiunto livelli del 70% del PIL. Nel 2008 ha toccato un picco del 74%, per poi ridiscendere al 65%, ma da allora ha ripreso a crescere in modo costante. Gran parte di tale debito è costituita da emissioni obbligazionarie: il valore nominale complessivo degli indici Bank of America- Merrill Lynch relativi al debito societario USA investment grade e high yield attualmente è pari al 37% del PIL, dal 20% che si registrava all’epoca dello scoppio della crisi.

Il settore societario è a corto di risorse finanziarie, e per coprire il suo fabbisogno ricorre al prestito. Ciò normalmente accade quando la spesa per investimenti di una società supera il suo livello di utili non distribuiti. La bilancia finanziaria a inizio 2015 è passata in territorio negativo e sembra tendere al peggioramento. Pur non essendo ai livelli negativi del 2008 o della fase di recessione conseguente lo scoppio della bolla delle dot.com, la situazione richiede comunque di essere tenuta sotto controllo. Questo vale in particolare quando, come parrebbe essere oggi, l’aumento del debito risulta dalla leva finanziaria più che da un’espansione della capacità.

In settimana, la società informatica americana Dell ha venduto 20 miliardi di dollari di obbligazioni per finanziare l’acquisizione di EMC Corporation. Non è la prima grossa operazione finanziata con l’emissione di debito nel ciclo corrente, e probabilmente non sarà l’ultima, considerato che i costi di finanziamento restano relativamente contenuti e che gli investitori sono alla ricerca di asset che generino rendimento. Uno scenario poco auspicabile per il mercato del credito USA nei prossimi mesi emergerà nel momento in cui la Fed dovesse prospettare più di un aumento dei tassi e le società dovessero affrettarsi a emettere obbligazioni prima che i costi di finanziamento aumentino.

La presenza di un ambiente favorevole ai finanziamenti ha fatto aumentare il ricorso alla leva finanziaria, ma la leva finanziaria è arrivata prima che si verificasse il boom economico. Normalmente le fasi di deficit del settore societario preludono a una flessione dell’indice ISM e a un rallentamento della crescita economica. Con livelli più elevati di leva finanziaria, potrebbe accadere che, nel momento in cui le società avessero l’esigenza di finanziare investimenti reali, il mercato non sarebbe più disponibile a concedere prestiti di denaro a un prezzo adeguato. Per varie ragioni risulta difficile pensare che, prima o poi, il futuro non ci riservi un forte aumento dei tassi di mercato e dei rendimenti obbligazionari. Un settore societario fortemente indebitato associato a un aumento dei tassi e a un rallentamento della crescita. Ahi ahi!

La sfida

Nel breve termine, la sfida consiste nel configurare i portafogli obbligazionari sulla base del valore relativo. Investire nel segmento high yield in questo momento è meno conveniente di tre mesi fa, quando i rendimenti erano il 2,5% in più negli Stati Uniti, e l’1,5% in più in Europa. Non crediamo che gli spread raggiungeranno livelli estremi nel breve. Tuttavia, se si considera che – a esclusione del settore dell’energia – il rendimento dei titoli USA di qualità inferiore a investment grade è sceso al 6,4%, la situazione è tale da giustificare un alleggerimento delle posizioni rispetto al primo trimestre, quando eravamo fortemente orientati a quel segmento del mercato.

Come già accennato, è ragionevole mantenere un’esposizione long sulla duration dei Treasury, a titolo di parziale copertura dal rischio di spread. Tuttavia, per quanto riguarda il mercato obbligazionario core, per il momento è meglio dormirci sopra. L’Europa ha un lungo elenco di cose di cui preoccuparsi – la “Brexit”, la mancanza di un governo in Spagna, la crescita ancora troppo bassa – ma i mercati non hanno molto da offrire agli investitori. Gli spread dei titoli sovrani periferici si sono ampliati – vi ricordo che si misurano rispetto al rendimento dei bund tedeschi – ma il rendimento complessivo è ancora fermo all’1,6% per il debito spagnolo a 10 anni e all’1,5% in Italia.

I mercati emergenti arrancano. Hanno perso terreno per effetto di un leggero re-pricing delle aspettative sui tassi d’interesse US, ma i rendimenti restano nettamente al di sotto del 6% (lo spread dei titoli sovrani in valuta forte a febbraio ha raggiunto il 6,8%). Il lento recupero della credibilità politica in Brasile favorisce in genere il sentiment e i mercati hanno accolto abbastanza di buon grado l’emissione obbligazionaria da 6,75 miliardi di dollari della compagnia petrolifera brasiliana a partecipazione statale Petrobras. Nonostante il timing non ideale, considerata la revisione dei tassi d’interesse US, negli ultimi mesi i costi di finanziamento per il Brasile hanno in genere registrato un fortissimo calo, essendo sempre più evidente che la Presidente Rousseff stesse perdendo il controllo.

Anche l’aumento dei prezzi petroliferi è stato decisamente di aiuto e, qualche giorno fa, i miei colleghi specializzati in mercati emergenti mi dicevano che, da inizio anno, l’America Latina è in testa alla classifica dei rendimenti obbligazionari dei Paesi appartenenti a quest’area. Si tratta di una notizia positiva in vista del ribilanciamento globale, ammesso che la Cina continui a crescere a ritmo rallentato anche in futuro.

Il rischio è una cosa meravigliosa

La sfida per chi gestisce portafogli obbligazionari consiste sempre nel conseguire il corretto equilibrio tra rischio di duration e rischio di credito lungo l’intero ciclo economico. Alcune obbligazioni molto sicure o difensive dal punto di vista del credito possono essere comunque molto volatili in base alla loro duration, mentre altri titoli di qualità creditizia inferiore possono essere comunque difensivi, purché abbiano una duration breve e assicurino un buon premio. Quando tassi e spread di credito sono prossimi ai livelli minimi, come è avvenuto negli ultimi anni, si tenderà a spostarsi sul segmento della curva dei rendimenti di qualità migliore e con duration più breve.

Se l’elemento di preoccupazione è costituito dagli aumenti dei tassi, è logico scegliere una duration più bassa, mentre, se si teme una flessione della crescita, il rischio di credito in un portafoglio misto avrà una copertura più efficace scegliendo duration superiori. La situazione attuale assomiglia a una sorta di strana guerra. Le valutazioni sono sempre più elevate, il rischio di un aumento dei tassi è molto specifico e la crescita globale è prossima allo stallo. Le aspettative sui rendimenti vanno monitorate con grande attenzione. Stiamo a vedere come si muoverà l’ISM nei prossimi mesi.

 

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