Sono i mercati a esagerare, non la Fed

A cura di Elena Moya, M&G Investments

Negli ultimi cinque giorni di contrattazioni, i mercati finanziari mondiali avevano dato l’impressione di essere rinsaviti, recuperando la tipica correlazione negativa che si vede di solito fra azioni e obbligazioni: preoccupati per l’effetto dei tassi in ascesa sui profitti societari, gli investitori sono corsi ad acquistare titoli governativi, tradizionalmente più sicuri, facendo scivolare verso il basso i principali indici azionari. Il tutto dopo che nelle prime battute del mese, il crollo simultaneo dei prezzi delle azioni e delle obbligazioni aveva portato il presidente statunitense Trump a puntare il dito contro la Federal Reserve (Fed), colpevole di aver frenato l’economia con il rialzo prematuro dei tassi.
I mercati obbligazionari hanno ridotto le perdite recenti quando i dati USA sono apparsi ancora poco convincenti, nonostante la buona partenza della stagione degli utili delle imprese americane. Sia l’inflazione che il noto indice di fiducia dei consumatori del Michigan hanno deluso le aspettative, mentre il deficit di bilancio del Paese è balzato a 779 miliardi di dollari nell’esercizio 2018, mai così in alto dal 2012.
Il criterio preferito dalla Fed per misurare le aspettative di inflazione, ossia il tasso di inflazione di breakeven a 5 anni, è sceso al 2,1%, ancora non proprio al livello del 2,2% perso nel 2014 e superato solo una volta a maggio di quest’anno. Il dollaro è arretrato.
I mercati emergenti (EM) sono rimbalzati, non solo per effetto del biglietto verde più debole, ma anche per meriti propri: la Turchia ha rilasciato il pastore evangelico statunitense il cui arresto aveva contribuito a scatenare la crisi di quest’estate nella regione EM, e la lira ha segnato un deciso rialzo, recuperando quasi la metà del valore perso fra luglio e agosto; lo stesso si può dire per il rand sudafricano, schizzato verso l’alto dopo la nomina del nuovo ministro delle Finanze. Il real brasiliano è riuscito ad annullare completamente gli effetti del crollo estivo, mentre il Paese si prepara alla seconda e ultima tornata delle elezioni generali il 28 ottobre, in cui entrambi i contendenti sono considerati propensi a una gestione responsabile delle finanze pubbliche. Il petrolio ha perso quota dopo che l’Agenzia internazionale per l’energia ha tagliato le previsioni di domanda.

Su

Abbuffata di debito: l’ora della verità? Il debito societario è lievitato in quasi tutti i Paesi sviluppati, negli ultimi anni, quando le aziende hanno approfittato dei tassi d’interesse ai minimi record per assumere più prestiti. Questi capitali sono stati impiegati non solo per l’acquisto di beni strumentali, ma anche per finanziare interventi volti a stimolare i prezzi azionari, come la distribuzione di dividendi e le operazioni di riacquisto di azioni.
Come si vede nel grafico, il numero di nuovi emittenti di debito societario negli Stati Uniti è cresciuto costantemente negli ultimi anni (barre blu), come pure la percentuale di tali emittenti con un debito superiore di oltre 5 volte ai rispettivi profitti (barre arancio). Tuttavia, questa proporzione ha cominciato a calare quando la Fed ha avviato l’attuale ciclo di rialzo dei tassi a dicembre del 2015 (linea verde). Ciò non toglie che gli investitori siano sempre più innervositi all’idea che gli ulteriori rialzi annunciati dalla Fed possano intaccare i profitti societari, con conseguente riduzione dei dividendi e dei riacquisti, ed è a questo clima che va attribuita l’ondata di vendite scattata di recente sulle azioni. Come spiega nel dettaglio Lu Yu di M&G, i flussi di cassa liberi delle imprese potrebbero essere messi a dura prova già con un leggero incremento dei tassi – per altri dettagli si rimanda al post di Lu, “Attenti all’abbuffata di debito”.
Lavoratori britannici – Dancing Queen. Quando il primo ministro del Regno Unito, Theresa May, ha fatto il suo ingresso alla conferenza del Partito Conservatore ballando sulle note della famosa canzone degli Abba, ancora non sapeva neanche di avere ottimi motivi per essere così allegra: solo qualche giorno più tardi è emerso che la crescita media dei salari nel Paese ha registrato un’accelerazione del 3,1% fra giugno e agosto, superiore alle aspettative, mentre l’inflazione è rimasta sotto controllo. A settembre l’indice dei prezzi al consumo (IPC) è sceso al 2,4% dopo aver toccato quota 2,7% ad agosto. Eppure, non è ancora chiaro se i sudditi di Sua Maestà e relativo primo ministro si troveranno a intonare Waterloo a breve. secondo l’Unione Europea, le probabilità di una Brexit senza nessun accordo non sono mai state così alte.

Giù

I Treasury USA in mano alla Cina: un messaggio dall’Oriente? La Cina, che esclusa la Fed, possiede più titoli del Tesoro statunitensi di chiunque altro, ha ridotto le posizioni per il terzo mese consecutivo in agosto, questa volta di 5,9 miliardi di dollari, scendendo a quota 1165 miliardi. Come si vede nel grafico, il debito della prima economia mondiale in mano all’economia n. 2 si è mosso più o meno di pari passo con il tasso di cambio fra le valute dei due Paesi: le posizioni in Treasury della Cina sono scese nel 2015-2016 (linea blu) mentre il renminbi perdeva valore contro il dollaro (arancio). Dopo una ripresa nel 2017 (con il dollaro in calo), adesso il valore di quelle posizioni si sta riducendo di nuovo, anche se non allo stesso ritmo della valuta. A un cambio di 6,92 contro il biglietto verde, il renminbi è molto vicino al minimo toccato verso la fine del 2016, un livello che aveva spinto Trump ad accusare la Cina di essere un manipolatore di valute. La guerra commerciale fra i due Paesi continua a innervosire i mercati e ha già indotto l’FMI a tagliare le previsioni di crescita mondiale per quest’anno. Resta da vedere chi ne risentirà di più: gli Stati Uniti, la Cina o entrambi in pari misura. Per il momento, come illustrato nel secondo grafico, le esportazioni cinesi sono costanti o in aumento, mentre quelle statunitensi stanno calando.
Offerta high yield: bassa. Le società di categoria inferiore all’investment grade stanno rinviando l’emissione di nuovi titoli, visto il rialzo dei tassi che rende più costoso il debito corporate. Finora in ottobre le nuove emissioni high yield negli Stati Uniti sono state particolarmente scarse, tanto che l’ammontare di capitali raccolti da inizio anno raggiunge appena i 178 miliardi di dollari ed è il più basso dal 2009. L’offerta limitata ha aiutato l’HY USA a generare un risultato dell’1,9% finora quest’anno e superare i titoli investment grade corrispondenti, che sono costati agli investitori una perdita del 3,1% nello stesso periodo. Questa sovraperformance è proseguita nonostante gli spread high yield abbiano toccato il minimo degli ultimi 11 anni, a quota 303 punti base (pb) rispetto ai Treasury, a marzo di quest’anno. Dal livello attuale di 336 pb, qualcuno sostiene che non ci sia molto margine residuo per ulteriori contrazioni, mentre secondo altri i fondamentali positivi e alcuni fattori tecnici come la carenza di offerta potrebbero dare sostegno all’asset class. Per altri approfondimenti, consigliamo la lettura del post del gestore di M&G Stefan Isaacs, “Spread HY, dietro le quinte”.

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